È stato tutto incredibilmente vero da sembrare finto. In genere vanno così certi B-movie, quanti ce ne manda l’America, quanti ne abbiamo visti. C’è un ragazzo che l’ha combinata grossa – quasi sempre danno la parte a un nero – allora viene punito e dopo il castigo, musica, violini, si sa come va a finire.

Va a finire come l’altra notte a Ja Morant, 24 anni, un tipo della Carolina del Sud, Dalzell, lo stesso posto di Bill Pinkney, forse il più classico interprete di White Crhistmas: la sua versione è in Mamma ho perso l’aereo.

Morant non giocava una partita di campionato dal mese di aprile. Ha dovuto scontare una sospensione a tempo indeterminato, quantificata in un secondo momento in 25 partite. Era stato scoperto durante una diretta Instagram di un amico a cantare in macchina le canzoni di Nba Young Boy, dove l’acronimo non sta per il campionato di basket ma per Never Broke Again, mai più squattrinato. Il punto è che mentre cantava, Morant aveva una pistola in pugno e la agitava. Era il 13 maggio scorso ed era la seconda volta che ci cascava.

A inizio marzo era stato pizzicato da una telecamera della sicurezza interna di un locale con una spogliarellista e un bel po’ di dollari in mano, per riapparire alle tre del mattino ubriaco, con la solita pistola nella solita diretta Instagram.

La Nba – stavolta nel senso di campionato – gli aveva dato otto partite di squalifica, lui aveva chiuso tutti i canali social e se ne era andato in una struttura della Florida in riabilitazione. Un imbarazzo gigantesco. La sua squadra, i Memphis Grizzlies, aveva dovuto cambiare la musica con cui introduce la presentazione dei giocatori prima delle partite. Psycho di Trippie Redd parla proprio di strip-tease e dollari, meglio evitare, meglio buttarsi sulle canzoni d’amore.

Il ritorno

La fine di questo cunicolo di muscoli, banconote e rapper è arrivato nella maniera che Ja Morant conosce per esprimersi meglio. Con un pallone da pallacanestro di nuovo tra le mani, ha segnato al suo rientro 34 punti contro i New Orleans Pelicans, ha schiacciato un pallone sopra la testa di un avversario alto 2 metri e 16 e soprattutto ha messo dentro il canestro decisivo per vincere la partita, penetrazione, svitamento, all’ultimo secondo della serata, mentre suonava la sirena. Se lo fanno a Hollywood, gli diciamo: meah, che scemenza.

Invece Ja è parso impassibile, come se tutto fosse davvero scritto. Ha detto che si era preparato, che la partita è andata esattamente come aveva immaginato, aveva preparato la mente e il corpo per otto mesi aspettando che arrivasse la sua occasione, per tornare a mostrare alla Nba il suo calibro (ehm).

Morant è arrivato in Nba quattro anni fa circondato dalla luce che ogni volta lo sport riserva a un nuovo fenomeno sulla soglia della porta. Era stato la seconda scelta al Draft, come dice il gran maestro Abdul Kareem-Jabbar il secondo preferito tra 25mila universitari che giocano a pallacanestro in America, a loro volta i migliori tra 551mila e 373 delle High School. Insomma: ci sai fare.

L’errore più grosso è credere di avercela fatta. Invece sei appena entrato nell’eccellenza, sei uno fra i 500 migliori giocatori del mondo, e pochi diventeranno una superstar. Quella luce Ja Morant ce l’ha. È un tipo che si fa beccare a bere tequila sull’aereo che lo porta al primo All-Star Game della vita ma è anche quello che porta la squadra ai play-off da rookie dandole una nuova dimensione.

Per intenderci: non ci riuscì neppure LeBron James a Cleveland. Ha firmato un contratto da 194 milioni di dollari per cinque anni, 2022-2027, ma può polverizzare tutto questo litigando alla partita di pallavolo di sua sorella o per una rissa al campetto sotto casa con un diciassettenne. Nella serata della redenzione, seduto in un angolo, seminascosto, c’era anche Tee Morant, un signore semplice che ha detto di sentirsi male come padre e di sentirsi responsabile per tutti i guai combinati da suo figlio.

Cosa fa la Nba per i suoi giovani

Anche alla Nba piacciono le storie di riscatto, eppure fa di tutto per non avere qualcuno che debba riscattare qualche cosa. Dal 1986 esiste il Rookie Transition Program, un’iniziativa obbligatoria per i debuttanti, un corso estivo durante il quale il sindacato giocatori organizza incontri con le stelle del passato, coach, arbitri, giornalisti, motivatori, tutti chiamati a spiegare la velocità differente a cui i ventenni vedranno girare il mondo, la nuova vita fuori dal campo, le insidie, i limiti, le tentazioni.

Sugli smartphone dei ragazzi viene scaricata una app che garantisce l’accesso a contenuti disponibili tutto l’anno, con un numero di telefono che offre assistenza per 24 ore su 24. Il Rookie Transition Program dedica una parte del corso alle persone che fanno parte della cerchia ristretta dei giocatori.

Greg Taylor, uno dei curatori, dice che «non si tratta solo di educare loro a fare scelte migliori, a padroneggiare la loro crescita, l’evoluzione verso il professionismo, ma il processo riguarda anche la famiglia e le influenze chiave. La Nba è un cambiamento straordinario nelle circostanze della loro vita. Questi ragazzi vanno guidati a gestire i loro guadagni, all’ingresso in una nuova comunità, a essere ambasciatori della Lega».

Così ai corsi si parla di come usare i social media, di droga e alcol, come non gettar via soldi, salute, sicurezza, doveri con le televisioni, sesso occasionale, scommesse, etica professionale. Per la gestione dello stress e dell’ansia, la Nba collabora con la società Headspace, specializzata in meditazione e consapevolezza.

Prima che arrivi un giudice sportivo a darti 25 giornate di squalifica, prima del law & order, viene la prevenzione, viene la costruzione di una cultura. Se poi a un Ja Morant capita lo stesso di cadere, c’è sempre un’azione all’ultimo secondo per il riscatto, penetrazione, sottomano, canestro. E il vecchio Bill Pinkney che da Danzell, Carolina del sud, canta White Christmas.

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