Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Falcone se ne vuole andare da Palermo. Ha capito che non ha più motivi per restare, che non può fare più di quello che già ha fatto. Gli è appena arrivata un’offerta dal nuovo ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli.

Gli ha proposto l’incarico di direttore generale degli Affari Penali di via Arenula. «È un altro mestiere e non è il tuo», gli dicono gli amici. «È lo stesso mestiere: a Palermo ho costruito una casa, qui posso costruire un palazzo», replica lui.

Tutti lo sconsigliano, provano a dissuaderlo, gli spiegano che il ministro «vuole usarlo come un fiore all’occhiello» nella sua battaglia contro i giudici per poi disfarsene. Si raffreddano alcuni rapporti, nascono malintesi anche con i più intimi.

Qualcuno gli ricorda che Martelli fa parte di quella «quaterna» di candidati del Psi che, alle politiche del 1987, ha preso un sacco di voti dai boss, le elezioni dell’«avvertimento» di Totò Riina ai notabili democristiani e con Cosa Nostra che fa votare i socialisti di Craxi.

Martelli, poi, è stato anche uno degli avversari più duri di quella «primavera palermitana» del sindaco Orlando, uno che non ha mai nascosto la sua ostilità per quei «mostri giuridici» che sono i maxi processi. Giovanni Falcone è inquieto, si danna l’anima per quei suoi amici che non riescono a capire cosa lui ha davvero in mente. Vuole finire il lavoro che ha cominciato in Sicilia. Vuole assediare la mafia con leggi, decreti, provvedimenti.

«Si è venduto», pensano alcuni a Palermo. «Ce lo siamo levato di torno per sempre», si rallegrano altri. Solo i mafiosi prevedono che là, al ministero, potrebbe «fare più danno» che in Sicilia. Prima di andare a Roma, rilascia un’intervista: «Io sono un uomo di questo Stato. Io credo alle Istituzioni. C’è chi crede di poter aggiustare le cose dal di fuori, io credo il contrario».

Dal Ministro Martelli

Giovanni Falcone prende servizio al ministero il 13 marzo 1991. Sembra un altro uomo quando mette piede nella capitale. All’improvviso dimentica le angosce e gli stenti di Palermo. Lontano dall’aria tetra che si respira in Sicilia, lontano anche da quel «Palazzo dei veleni» che lo ha costretto a vivere con la paura addosso. Falcone sembra sereno. Ma sa che non durerà a lungo. «Io e Francesca abbiamo deciso da tempo di non avere figli per muoverci con più tranquillità e continuare a fare il nostro lavoro. La lista degli orfani qui in Sicilia è già lunga, non credo che io debba contribuire ad allungarla ancora di più», confessa a Paolo Borsellino in uno di quei rari fine settimana in cui torna a Palermo.

A Roma, fuori dal territorio mafioso, è convinto al momento di stare al sicuro. Dopo tanti anni si sente libero. Incontra gli amici nei bar intorno di Trastevere, va a cena con i colleghi del ministero nelle trattorie di Campo dei Fiori. Una vita «quasi» normale. Come non gli accadeva dal 1980. Da quando sulla sua scrivania era arrivato il primo fascicolo su Rosario Spatola.

Con Claudio Martelli c’è intesa. Il ministro della Giustizia gli dà via libera per un «pacchetto antimafia» che ha elaborato e ascolta per settimane i suoi suggerimenti. Anche l’ultimo, quando il giudice gli fa un esempio: «Cosa Nostra ha la sua Cupola e anche noi dobbiamo averla: una Superprocura nazionale che coordini tutte le procure. Solo così riusciremo a fronteggiare il crimine organizzato, altrimenti ogni ufficio giudiziario va per conto suo e noi perdiamo la visione d’insieme del fenomeno...». Il ministro Martelli annuncia l’istituzione della Superprocura. Sembra il posto giusto per Falcone. Ma, ancora una volta, la magistratura italiana gli si rivolta contro. I soliti nemici. E, adesso, anche gli amici. «Non puoi metterti lì, ti vedono come il consigliere del Principe», gli urlano.

È solo anche fra i giudici della sua corrente, il Movimento per la Giustizia che ha contribuito a fondare. È attaccato da Magistratura Democratica e da tutta la sinistra. Troppo potere nelle mani di un solo uomo. Falcone è un accentratore. Falcone non può rappresentare la faccia pulita di Martelli. Qualcuno trova un candidato da contrapporgli. Individuano Agostino Cordova, il procuratore di Palmi che ha appena concluso due inchieste: una sulla massoneria segreta e l’altra sugli scandali dei socialisti in Calabria. È il personaggio perfetto per lanciare la sfida a Giovanni Falcone, «uomo» di Martelli. La commissione per gli incarichi direttivi del Csm si ripete, torna a recitare un copione già visto. Come due anni prima nel caso Meli-Falcone, sceglie il candidato Agostino Cordova per tre voti contro due.

Il Plenum del Consiglio Superiore non farà in tempo a bocciare Falcone per la seconda volta. Il 23 maggio del 1992 è vicino. Giovanni Falcone è furibondo, anche questa volta era sicuro di farcela. Ma va avanti, non molla, è fatto d’acciaio. Al ministro Martelli presenta il suo «piano» Confische dei beni, una legge sui collaboratori di giustizia, il carcere duro per i boss. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli e quello dell’Interno Vincenzo Scotti costringono il presidente del Consiglio Giulio Andreotti a far passare il «pacchetto antimafia». Falcone vuole anche spedire tutti i capi di Cosa Nostra nelle prigioni speciali: sulle isole di Pianosa e dell’Asinara. Il governo sembra d’accordo anche su questo punto

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