Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.


Pio La Torre si sente in pericolo. Torna in Sicilia. Cerca una casa «sicura» a Palermo, in via Toselli. L’appartamento però non si rivela così protetto come crede e si trasferisce in corso Pisani, dietro piazza Indipendenza e vicino al palazzo Palagonia dove c’è la sede del partito.

Ogni tanto, per precauzione, va a dormire all’improvviso a casa di un amico dei tempi di scuola. Confessa le sue apprensioni a Maria Fais, una di famiglia. Ai compagni più fedeli, Nino Mannino e Mimì Bacchi, consiglia di «tenere gli occhi aperti». A Rosario Di Salvo fa comprare una pistola per sé e un’altra per lui. Due Smith and Wesson.

In quei mesi Pio La Torre si concentra sugli appalti siciliani, sul risanamento del lungomare di Palermo, sulla costruzione di una diga foranea. Tanti affari e tanti soldi. Gli torna sempre in mente Vito Ciancimino, il figlio del barbiere di Corleone che anno dopo anno è diventato sempre più potente .

[…] Ma non c’è solo Ciancimino a manovrare nell’ombra per i grandi lavori pubblici. C’è il solito Cassina, il conte Arturo, quello che da 51 anni ha il monopolio della manutenzione di strade e fogne in città. Pio La Torre viene informato anche di una riunione a Roma fra il presidente della Regione Mario D’Acquisto e i più grossi imprenditori edili di Catania, i Cavalieri – Mario Rendo, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro – che si sono accordati per rastrellare tutti gli appalti miliardari di Palermo. A cominciare dal Palazzo dei Congressi, un affare gigantesco nella strada più elegante, via Libertà.

È una novità assoluta lo sbarco di imprenditori catanesi a Palermo. Significa che le «famiglie» di una parte e dell’altra dell’isola sono unite per spartirsi il «pizzo» sui grandi lavori. I Cavalieri sono i signori di Catania. Comandano, controllano, comprano tutto. Anche il silenzio. Quando qualcuno comincia ad accorgersi di loro e ad attaccarli, come fa per primo e da solo il giornalista Pippo Fava, i Cavalieri si scatenano. Sguinzagliano i loro lacchè, vomitano minacce legali, scaraventano offensive contro la «criminalizzazione che ci colpisce».

Ostinato, Pio La Torre cerca di scoprire cosa c’è in fondo all’accordo fra Palermo e Catania. Tocca fili ad alta tensione. Nella primavera del 1982 conosce anche due giovani istruttori. Sono segregati in un ammezzato buio del Tribunale di Palermo. Uno si chiama Giovanni Falcone, l’altro Paolo Borsellino. I due giudici indagano su mafia e banche, mafia e imprese, mafia e Regione. «Pazzi, sono dei pazzi», dicono in città.

La Torre è in confidenza con il loro capo, Rocco Chinnici, il magistrato che ha preso il posto del suo amico Cesare Terranova ucciso qualche anno prima. Con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino parla di ciò che sta avvenendo in Sicilia, della guerra che Cosa Nostra ha dichiarato allo Stato, delle misure legislative che occorrono per fermarla. Quegli uomini sanno bene cos’è la mafia. L’hanno vista, respirata fin da bambini.

Desiderio di giustizia

Il desiderio di giustizia di Pio La Torre non è condiviso fino in fondo da tutti, nemmeno nel suo partito. Il Pci in Sicilia è dilaniato da faide intestine come sempre. Il 14 gennaio del 1982, al teatro Biondo, si apre il IX Congresso regionale del partito. Tre giorni dopo, il voto a scrutinio segreto è un’umiliazione per Pio.

Tutti i compagni più vicini a lui vengono esclusi dal Comitato regionale. Su una scheda è riportato il nome di uno dei suoi collaboratori più stretti, Gioacchino Iachino Vizzini, accompagnato da una frase: «Iachino statti a Pechino». Vizzini in quei giorni è in Cina con una delegazione del Pci. È un segnale chiaro che parte dai suoi oppositori interni. Pio la Torre, al congresso, rischia addirittura di non risultare – lui, segretario – neanche il primo degli eletti.

Gli sembra rivivere lo smacco di tanti anni prima, nel 1967, quando l’hanno destituito dalla guida del partito in Sicilia. Serpeggiano altre ansie nel Pci di Palermo. A La Torre riferiscono voci su «certi compagni» in società con mafiosi. Vuole fare pulizia. Ordina un’indagine interna sui rapporti di alcune cooperative rosse con piccole imprese della borgata di Ciaculli e di Villabate, dirigenti e amministratori del Pci – uno in particolare, Nino Fontana abile imprenditore soprannominato Mister Miliardo - legati da interessi economici con uomini in contatto con Michele Greco e con prestanome di Bernardo Provenzano. Gli atti della Commissione provinciale di controllo del Pci, sugli agganci delle coop con i boss di Ciaculli e Villabate, spariranno per sempre dagli archivi del partito in corso Calatafimi.

Viene anche sottratta la relazione di Pio La Torre con la denuncia di quelle collusioni. I dirigenti incolpati di contiguità con le cosche vengono tutti prosciolti da un’indagine interna. Punito, invece, è un quadro del partito che li ha indicati. Gli spediscono un richiamo formale «e l’invito perentorio a riconoscere pubblicamente l’infondatezza delle accuse mosse». È un’altra sconfessione per Pio La Torre. L’ala più «consociativa» del partito si muove spregiudicata nelle alleanze, è troppo vicina a grandi imprenditori in odore di mafia. «Non possiamo fare l’analisi del sangue all’aziende», si giustificano.

Pio La Torre è amatissimo da alcuni compagni, contrastato in silenzio da altri, circondato dall’indifferenza di molti dirigenti impegnati a farsi la guerra l’uno con l’altro. Il congresso regionale del 1981 alla fine approva comunque il suo documento. Al teatro Biondo, Pio La Torre dice alla fine: «Gli omicidi politici compiuti dal terrorismo mafioso in Sicilia, nel 1979 e nel 1980, non possono essere esaminati come singoli episodi.

È ridicola la tesi che Piersanti Mattarella sia stato ammazzato soltanto per l’appalto di sei edifici scolastici a Palermo». Piersanti Mattarella – il capo del governo siciliano, da tutti indicato come il delfino di Aldo Moro – si è distaccato dalla tradizione familiare per cambiare le regole del gioco politico nell’isola. Il giorno dell’Epifania del 1980 lo uccidono. Sotto casa, in via Libertà.

© Riproduzione riservata