Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


È il 23 maggio, ore 16.40. Giovanni Falcone è appena decollato dall’aeroporto di Ciampino su un aereo assieme alla moglie Francesca.

È una decisione dell’ultimo momento. Ma i sicari sono già appostati sull’autostrada. Una talpa li avverte che il giudice sta scendendo a Palermo.

L’aereo atterra a Punta Raisi. Gioacchino La Barbera percorre in macchina la stradina parallela all’autostrada, segue le tre blindate del giudice con il telefonino sempre acceso. È in contatto con i mafiosi che da un paio di ore sono in attesa sulla collinetta di

Capaci: Giovanni Brusca e Antonino Gioè, Santino Di Matteo, Salvatore Biondino, Mariano Troia, Giovanbattista Ferrante. Lo svincolo è quello di Capaci, il territorio è nel comune di Isola delle Femmine.

Un botto terrificante, la terra che si apre, il fumo, una colonna di fuoco alta quindici metri, un cratere profondo dove precipitano due delle tre Croma blindate. La terza viene ritrovata a una sessantina di metri, in mezzo a un campo di ulivi. Dentro ci sono i corpi di tre agenti carbonizzati: Antonio Montinaro. Vito Schifani. Rocco Di Cillo.

“L’indio”

C’è anche l’«indio» con loro? Chiedo subito di lui, l’«indio». Non ho mai saputo il suo nome, ha una faccia da Apache. Ho trascorso mattinate intere a parlare con quel poliziotto tutto nervi e con i capelli neri raccolti in un codino, dietro la porta del bunker in attesa di Giovanni Falcone. È simpatico, sveglio, ha la mania degli orologi. Ne porta tre al polso destro, due a quello sinistro. Ogni volta che lo vedo, gli chiedo che ora è e ridiamo sempre alla stessa stupida battuta.

Ci beviamo il caffè, passeggiamo avanti e indietro nell’ammezzato buio, chiacchieriamo di tutto e di niente. Non faccio mai domande sul giudice che lui scorta da dieci anni. L’«indio» lo rivedo ai funerali, il 25 maggio. Mi abbraccia. Ha una gamba ingessata. Una settimana prima è caduto da una scala e se l’è rotta. L’«indio» si è salvato.

La morte di Falcone

Francesca Morvillo è ferita, se ne va un’ora dopo in ospedale. Alle 19 Giovanni Falcone non respira più. «Mi è morto fra le braccia», singhiozza Paolo Borsellino.

Il 25 maggio del 1992 saltano tutte le manovre e le camarille per l’elezione del Presidente della Repubblica. La strage di Capaci porta al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro.

Il 25 maggio qualcuno fa sparire dal computer del giudice tutti i file che custodiscono i suoi diari. Svuota la memoria di un altro portatile rimasto sulla scrivania al ministero, cancella il disco rigido del Toshiba che è nello studio della sua casa di via Notarbartolo.

Dopo ogni delitto eccellente, passa sempre qualcuno a ripulire la scena.

Il giudice che quasi nessuno ha rispettato in Italia, un mese dopo la morte è commemorato al Congresso americano. A Washington votano all’unanimità una risoluzione per mettere tutti in guardia: la sua uccisione «è un delitto commesso anche contro gli Stati Uniti d’America».

Nel grande atrio della scuola dell’Fbi, a Quantico, in Virginia, c’è un suo busto in bronzo. L’hanno messo lì, proprio in quel punto, perché gli allievi che vogliono diventare agenti speciali devono passare davanti a Giovanni Falcone almeno due volte al giorno. Per rendere onore a un grande italiano.

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