Su Domani prosegue il Blog mafie, da un'idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l'associazione cosa vostra. In questa serie, seguiamo gli sviluppi del processo Borsellino quater, dopo la strage di via d'Amelio: uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana.

Alla luce degli elementi di prova raccolti nel corso dell’istruttoria dibattimentale, questa Corte ritiene che allo Scarantino debba essere concessa la circostanza attenuante di cui all’art. 114 comma terzo c.p., che si riferisce «all'ipotesi di colui che sia stato determinato a commettere il reato ed a cooperarvi sempre che ricorra o la fattispecie contemplata dall'art 112 n. 3 di chi nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette, o quella prevista dal numero 4 dello stesso articolo: cioè di determinazione al reato di persona in stato di infermità o di deficienza psichica» (Cass., Sez. II, n. 1696/1976 del 31/10/1975, Rv. 132226).

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Deve, infatti, ritenersi che lo Scarantino sia stato determinato a rendere le false dichiarazioni sopra descritte da altri soggetti, i quali hanno fatto sorgere tale proposito criminoso abusando della propria posizione di potere e sfruttando il suo correlativo stato di soggezione. Al riguardo, va segnalato un primo dato di rilevante significato probatorio: come si è anticipato, le dichiarazioni dello Scarantino, pur essendo sicuramente inattendibili, contengono alcuni elementi di verità.

Sin dal primo interrogatorio reso dopo la manifestazione della sua volontà di “collaborare” con la giustizia, in data 24 giugno 1994, lo Scarantino ha affermato che l’autovettura era stata rubata mediante la rottura del bloccasterzo, e ha menzionato l’avvenuta sostituzione delle targhe del veicolo. Nel successivo interrogatorio del 29 giugno 1994 egli ha specificato che, essendo stato rotto il bloccasterzo dell’autovettura, il contatto veniva stabilito collegando tra loro i fili dell'accensione. Nelle sue successive deposizioni, lo Scarantino ha sostenuto che la Fiat 126 era stata spinta al fine di entrare nella carrozzeria (circostanza, questa, che presuppone logicamente la presenza di problemi meccanici tali da determinare la necessità di trainare il veicolo). Egli, inoltre, ha aggiunto di avere appreso che sull’autovettura erano state applicate le targhe di un’altra Fiat 126, prelevate dall’autocarrozzeria dello stesso Orofino, e che quest’ultimo aveva presentato nel lunedì successivo alla strage la relativa denuncia di furto.

Si tratta di un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero ed estranee al personale patrimonio conoscitivo dello Scarantino, il quale non è stato mai coinvolto nelle attività relative al furto, al trasporto, alla custodia e alla preparazione dell’autovettura utilizzata per la strage. E’ quindi del tutto logico ritenere che tali circostanze siano state a lui suggerite da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte.

Le note del Sisde

Questa conclusione è rafforzata da una ulteriore elemento, cui ha fatto riferimento il Pubblico Ministero nella sua requisitoria e nell’esame del Dott. Contrada, svolto all’udienza del 23 ottobre 2014: si tratta, precisamente, dell’appunto con cui in data 13 agosto 1992 il Centro SISDE di Palermo comunicò alla Direzione di Roma del SISDE che «in sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all'autobomba parcheggiata in via D'Amelio, nei pressi dell'ingresso dello stabile in cui abita la madre del Giudice Paolo Borsellino. (…) In particolare, dall'attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l'identificazione degli autori del furto dell'auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato».

In proposito, il Pubblico Ministero ha persuasivamente osservato che «non è dato comprendere come, a quella data (13.8.1992), pur successiva alle conversazioni telefoniche intercettate sull’utenza in uso alla VALENTI Petrina, gli investigatori avessero potuto acquisire – se non in via meramente confidenziale - notizie “sul luogo” in cui l’autovettura rubata era stata custodita. Vi era dunque una traccia in tale direzione che gli inquirenti palermitani si apprestavano a seguire ben prima del comparire sulla scena del CANDURA, prima fonte di accusa nella direzione della Guadagna. Quale fosse tale fonte nessuno ha saputo o voluto rivelarla. Residua allora il dubbio che gli inquirenti tanto abbiano creduto a quella fonte, mai resa ostensibile, da avere poi operato una serie di forzature per darle dignità di prova facendo leva sulla permeabilità di un soggetto facilmente “suggestionabile”, incapace di resistere alle sollecitazioni, alle pressioni, ricattabile anche solo accentuando il valore degli elementi indiziari emersi a suo carico in ordine alla vicenda di Via D’Amelio o ad altre precedenti vicende delittuose (in particolare alcuni omicidi) con riguardo alle quali egli era al tempo destinatario di meri sospetti».

La particolare attenzione rivolta allo Scarantino dai servizi di informazione, nei mesi immediatamente successivi alla strage, è ulteriormente dimostrata da alcuni elementi probatori raccolti nel processo c.d. “Borsellino uno”. In particolare, la sentenza n. 1/1996 emessa in data 27 gennaio 1996 dalla Corte di Assise di Caltanissetta all’esito del primo grado di giudizio ha sottolineato quanto segue: «La piena operatività dello Scarantino Vincenzo in ambito delinquenziale, la sua appartenenza ad un nucleo familiare notoriamente inserito nel contesto criminale della Guadagna erano peraltro dati già acquisiti al patrimonio conoscitivo dei Servizi di informazione e degli Organi Inquirenti anteriormente al coinvolgimento dell’imputato nei fatti per cui è processo.

Il teste dr. Finocchiaro Mario, che all’epoca delle stragi rivestiva le funzioni di Dirigente della Squadra Mobile di Caltanissetta, ha riferito in dibattimento di aver trasmesso alla Procura Distrettuale in sede una informativa riservata del SISDE pervenuta al suo ufficio, nella quale si segnalavano i rapporti di parentela e affinità di taluni componenti della famiglia Scarantino con esponenti delle famiglie mafiose palermitane, i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dello Scarantino Vincenzo e dei suoi più stretti congiunti.

Si evidenziava in particolare nella nota in questione, sul cui contenuto ha dettagliatamente riferito in dibattimento il dr. Finocchiaro Mario, che una sorella di Vincenzo Scarantino, di nome Ignazia, è coniugata con Profeta Salvatore, esponente della cosca di S. Maria di Gesù, una zia paterna, che porta parimenti il nome Ignazia, è sposata con Profeta Domenico, fratello del predetto Salvatore, una cugina paterna, anch’essa di nome Ignazia, è coniugata con Lauricella Maurizio. Il predetto è figlio di Madonia Rosaria, a sua volta figlia di Madonia Francesco, cugino omonimo del noto boss mafioso di Resuttana. Il medesimo Lauricella Maurizio è imparentato, tramite suoi stretti congiunti, con altri esponenti mafiosi della cosca di Corso dei Mille e più specificamente la di lui sorella Giuseppa è sposata con Sinagra Giuseppe, fratello del noto collaboratore di giustizia, un’altra sorella di nome Angela è coniugata con Senapa Pietro, elemento di spicco della suddetta famiglia mafiosa, condannato all’ergastolo nel maxiprocesso di Palermo.

Nella stessa informativa del SISDE venivano ancora richiamati i precedenti penali e giudiziari rilevati a carico dei componenti la famiglia Scarantino. In essa si sottolineava in particolare che i fratelli di Scarantino Vincenzo, Rosario, Domenico, Umberto ed Emanuele, avevano riportato diverse denunce, anche per reati di una certa gravità, quali associazione per delinquere, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, tentato omicidio, detenzione di armi, rapina, furto, ricettazione ed altro; la cognata Gregori Maria Pia, moglie di Scarantino Rosario aveva precedenti per sfruttamento della prostituzione, un’altra cognata Prester Vincenza, coniugata con Scarantino Umberto, aveva precedenti per associazione per delinquere, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti; gli zii paterni Scarantino Alberto e Lorenzo avevano precedenti rispettivamente per lesioni, violazione alla normativa sulle armi, furto e ricettazione; i cugini Gravante Giovanni e Chiazzese Natale avevano precedenti per associazione per delinquere e furto. Si evidenziava infine nella nota in questione che la persona più in vista, sotto il profilo delle capacità criminali e della pericolosità sociale, dell’entourage familiare dello Scarantino Vincenzo era sicuramente il di lui cognato Profeta Salvatore, già denunciato per associazione per delinquere semplice e mafiosa, per estorsione, armi, traffico di stupefacenti ed altri reati minori, implicato nel cd. blitz di Villagrazia e da ultimo nel maxi processo di Palermo».

Contrada e Tinebra

Come ha rilevato il Pubblico Ministero nella sua requisitoria, tale nota fu trasmessa il 10 ottobre 1992 alla Squadra Mobile di Caltanissetta. Ad essa ha fatto riferimento, nella deposizione resa all’udienza del 23 ottobre 2014, il Dott. Bruno Contrada, che ha spiegato che la stessa fu redatta dal capo del centro SISDE di Palermo su diretta richiesta del Dott. Tinebra, benché non fosse possibile instaurare un rapporto diretto tra i servizi di informazione e la Procura della Repubblica («poi mi fu fatto leggere l'appunto dal direttore del centro, che il dottor Tinebra chiese personalmente al capocentro, al colonnello Ruggeri, un appunto sulla personalità di Vincenzo Scarantino e sui suoi eventuali legami con ambienti della criminalità organizzata, cioè della mafia, e di riferire direttamente a lui tutto questo. Al che il direttore del centro, sapendo bene che non poteva avere questo rapporto diretto con la Procura della Repubblica, chiese l'autorizzazione alla direzione di poter svolgere questa indagine sua, autonoma, su Scarantino»). Dalla deposizione del Dott. Contrada emerge, altresì, una ulteriore iniziativa, decisamente irrituale, del Dott. Tinebra, il quale, già nella serata del 20 luglio 1992, gli chiese di collaborare alle indagini sulle stragi, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, e nonostante la normativa vigente precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura («Io ero a Palermo, dove (…) risiedeva ancora la mia famiglia, nonostante fossi in servizio a Roma, (…) e io spesso venivo giù a Palermo, non dico tutte le settimane, ma perlomeno un paio di volte al mese. Ero in ferie dal 12 luglio e sarei rimasto in ferie fino al primo agosto a Palermo. La sera del 19 luglio... no, forse no la sera, la mattina dopo, il 20 luglio, la mattina, ebbi una telefonata dal dottor Sergio Costa, funzionario di Polizia, commissario di Pubblica Sicurezza, aggregato... nei ruoli del SISDE, quindi faceva servizio al Servizio, al SISDE, ed era il genero del Capo della Polizia Vincenzo Parisi, aveva sposato una delle figlie del Prefetto Parisi, il quale mi dice che per incarico di suo suocero, il Capo della Polizia Parisi, ero pregato di andare dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra, che era da pochi giorni immesso nel possesso della carica di Procuratore di Caltanissetta, da pochi giorni, da poco tempo, pochi giorni, che desiderava parlarmi. Nel contempo il dottor Costa mi disse che potevo andare la sera, perché ne aveva già parlato con il Procuratore Tinebra, al Palazzo di Giustizia a Palermo, in un ufficio che gli era stato dato provvisoriamente al dottor Tinebra, alla Procura Generale presso la Corte di Appello di Palermo, un ufficio dove lui aveva questi primi contatti, perché doveva occuparsi di questa strage, come già si occupava Caltanissetta della strage di Capaci, Falcone. Ed io andai quella sera dal dottor Tinebra, che non conoscevo, con cui non avevo avuto mai rapporti; e il dottor Tinebra mi disse se io ero disposto a dare una mano, sempre in virtù della mia pregressa esperienza professionale, etc., etc., per le indagini sulle stragi. Io feci presente varie cose al dottor Tinebra: innanzitutto che ero un funzionario dei Servizi e quindi non rivestivo più la veste di ufficiale di Polizia Giudiziaria, quindi non potevo svolgere indagini in senso proprio, la mia poteva essere soltanto un'attività informativa, non operativa; che per Legge noi non potevamo avere rapporti diretti con la magistratura; che, in ogni caso, io avrei dovuto chiedere l'autorizzazione ai miei superiori diretti, e parlo del mio direttore, che era allora il Prefetto Alessandro Voci, e che anche una collaborazione sul piano informativo poteva avvenire soltanto previ accordi con gli organi di Polizia Giudiziaria che erano interessati alle indagini. Nell'occasione il dottor Tinebra mi disse anche, così, per inciso, dice: "Sa, io mi rivolgo a lei perché a Caltanissetta è stato costituito un ufficio della DIA, Direzione Investigativa Antimafia, ma da poco tempo e mi sono reso conto che c'è personale che di fatti di mafia ne comprende ben poco", detto dal dottor Tinebra. Io non sapevo neppure chi erano i componenti della DIA di Caltanissetta, che lavoravano con la Procura della Repubblica di Caltanissetta. Comunque, dissi: "Io sono per mia... per il mio spirito di servizio, per la mia volontà di... di rendermi utile per quello che posso fare, che è nelle mie possibilità, a questo, però devo chiedere prima di tutto l'autorizzazione al mio direttore". Non mi è sufficiente che questa richiesta mi venga dal Capo della Polizia, perché io non dipendo più dal Capo della Polizia, e che comunque sarei stato disposto a dare il mio contributo qualora si fossero osservate queste norme: autorizzazione dei miei superiori e intese con gli organi di Polizia, Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri, interessate alle indagini sulle stragi».

E’ appena il caso di osservare che la rapidità con la quale venne richiesta la irrituale collaborazione del Dott. Contrada, già nel giorno immediatamente successivo alla strage di Via D’Amelio, faceva seguito alla mancata audizione del Dott. Borsellino nel periodo di 57 giorni intercorso tra la strage di Capaci e la sua uccisione, benché lo stesso magistrato avesse manifestato pubblicamente la propria intenzione di fornire il proprio contributo conoscitivo, nelle forme rituali, alle indagini in corso sull’assassinio di Giovanni Falcone, cui egli era legato da una fraterna amicizia.

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