Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

L'indagine prende le mosse dal tentativo di suicidio in carcere di Emanuele Di Filippo, un uomo di poco meno di quarant'anni, una vaga somiglianza con Alain Delon, arrestato per associazione mafiosa nell'ambito del procedimento denominato «Golden Market», nome di fantasia collegato alle iniziali del collaboratore di giustizia che aveva consentito l'operazione, Gaspare Mutolo.

Di Filippo non regge la detenzione: è depresso e tenta di impiccarsi in cella con un rudimentale cappio fatto con un lenzuolo e legato alle sbarre del letto.

Per noi magistrati è poco più di uno sconosciuto, se non per una parentela mafiosa importante: la sorella, Agata, ha sposato Nino Marchese, uno dei killer più spietati del gruppo di fuoco storico della borgata di Ciaculli. Nino inoltre è anche il fratello di Vincenzina Marchese, la moglie di Leoluca Bagarella. Un intreccio di famiglie «pesanti» nella geografia mafiosa, dunque.

Il tentativo di suicidio di un boss detenuto fa scattare il campanello d'allarme. L'allora sostituto procuratore nazionale antimafia Piero Grasso lo va a incontrare in carcere; da quel colloquio capiamo che ci sono degli spiragli per una sua collaborazione: «Sul soggetto si può lavorare».

Così, con i miei colleghi Guido Lo Forte e Ignazio De Francisci, in un giorno di maggio, andiamo in trasferta nel carcere di Rebibbia, a Roma, a interrogare Emanuele Di Filippo, e la missione va a buon fine.

Spossato dalla detenzione, sfinito psicologicamente di fronte alla possibilità di trascorrere ancora lunghi anni di carcere, getta la spugna e decide di collaborare. È fondamentalmente timido, fragile, un po' introverso. È letteralmente distrutto. Certamente il tentato suicidio non ha fatto che peggiorare la sua situazione: non è ben visto in carcere un mafioso che prova a togliersi la vita.

Istintivamente credo subito alla sua sincerità. È diplomato all'istituto d'arte ed è figlio di un funzionario di banca. Inizia a raccontare quel che sa partendo proprio dalla sua famiglia. Ci parla di suo fratello minore, Pasquale, e delle sue «relazioni pericolose». Ci rivela che, pur non essendo ricercato, vive in semiclandestinità. E periodicamente - ci dice - incontra Leoluca Bagarella, di cui sarebbe uno degli uomini di fiducia.

Pasquale Di Filippo, un «mafioso bene»

Pasquale Di Filippo ha trentadue anni, più robusto del fratello, altezza media, con il vezzo di passarsi la mano destra tra i capelli biondo cenere. È, come il fratello, un «mafioso bene». Ha pure fatto un bel matrimonio sposando la figlia di Masino Spadaro, il re della Kalsa, il più noto contrabbandiere della storia di Cosa nostra.

Sulla base delle indicazioni di Emanuele, la Dia individua una casa di campagna, a Misilmeri, dove

Pasquale si nasconde; e dove, come scopriremo dopo, in quei giorni si rifugia anche Salvatore Grigoli, uno dei killer di don Pino Puglisi, il parroco del quartiere Brancaccio di Palermo assassinato in un attentato mafioso.

Riusciamo a piazzare nella casa alcune microspie e ci mettiamo in ascolto nella speranza di captare qualche conversazione interessante che ci porti sulle tracce di Bagarella. Ma accade un imprevisto, un fatto curioso. Una delle cimici comincia a trasmettere su frequenze diverse da quelle da noi impostate: mentre Grigoli sta guardando il telegiornale in salotto, sente in onda la voce della moglie che sta addormentando il figlio nella stanza accanto. È un'interferenza e lo capisce al volo. Si mette alla ricerca della microspia e la trova. Nascosta nell'interruttore della luce: fine delle trasmissioni.

Così, dopo la scoperta della cimice, decidiamo di rompere gli indugi. Dispongo un fermo per Pasquale Di Filippo per il reato di associazione mafiosa, utilizzando tra l'altro le dichiarazioni del fratello Emanuele.

Pasquale viene bloccato dagli uomini della Dia e portato nei loro uffici vicino allo stadio della Favorita. Con me ci sono i direttori dei Centri operativi di Roma e Palermo, Franco Gratteri e Nino Cufalo. Pasquale Di Filippo prende atto delle accuse che gli vengono rivolte dal fratello e della conseguente prospettiva di trascorrere molti anni in carcere; così, terrorizzato, decide anche lui di «saltare il fosso».

Grondante di sudore dichiara, tra le lacrime, di voler collaborare. È talmente emozionato che il suo viso cambia continuamente colore. Passa dal rosso porpora al bianco cadaverico: si accende improvvisamente o impallidisce di colpo.

Tullio e Tony

Come prima indicazione ci fa il nome di un certo Tony, personaggio chiave nella tutela della latitanza di Leoluca Bagarella: «È il suo autista,» ci dice «il factotum, l'uomo di fiducia. Cercate lui!». E aggiunge che questo Tony ha un negozio d'abbigliamento in corso Tukory, nei pressi della stazione di Palermo. Lo spunto sembra valido e non ci metto molto a identificare Tony in Antonio Calvaruso, nome che non mi è nuovo.

Avevo già avuto modo di conoscerlo qualche anno prima, nel 1991, quando ero sostituto procuratore a Termini Imerese. Mi era capitato di arrestarlo, addirittura, con l'accusa di favoreggiamento della prostituzione e frode in commercio insieme con il suo amico e datore di lavoro Tullio Cannella, uno dei tanti costruttori palermitani in odore di mafia, ed esperto più di chiunque altro in truffe e raggiri.

I due avevano aperto un locale notturno e lo gestivano per conto dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss di Brancaccio. Con grande fantasia l'avevano chiamato Les Tours d'Orient, le Torri d'Oriente, un nome francese per dare al night un tocco di classe. In realtà era un postribolo, una specie di balera dove venivano fatte prostituire giovani ragazze straniere: rumene, sudamericane, africane. Le Torri costituivano la costruzione centrale dell'Euromare Village, un signorile residence sulla spiaggia, con numerosi miniappartamenti, in località Buonfornello, ai confini di Termini Imerese. A pochi chilometri da Palermo.

Un complesso immobiliare del valore di miliardi di lire, un affare nelle mani delle cosche. Come investimento fruttava bene. Anche il night. Al piano terra c'era il locale, con tavolini, divani, piano bar, luci soffuse e séparé. Al primo piano le stanze da letto delle giovani entraîneuses.

Gli avventori venivano letteralmente spolpati, obbligati a fare una consumazione ogni quarto d'ora: quarantamila lire a bicchiere, che all'epoca non erano certo poche. Per le ragazze, invece, c'era una bevanda speciale, anche questa obbligatoria, chiamata pomposamente «il messicano»: zucchero, limone e acqua. Un miscuglio torbido e totalmente analcolico che all'ignaro cliente, voglioso di far ubriacare la compagna, costava un'aggiunta di altre trentacinquemila lire.

C'era poi la lista delle superconsumazioni, ovviamente con truffa inclusa: semplice spumante spacciato come champagne di grande marca. Travasavano del comune Asti Cinzano in bottiglie vuote di Dom Perignon del '62, e il gioco era fatto: «Minchia come è buono questo sciampagne» dicevano i clienti contenti.

Bevevano bollicine direttamente dalle scarpe delle fanciulle, così si usava, e non capivano più niente. Tullio Cannella e Tony Calvaruso erano i re di queste «notti d'oriente», il Gatto e la Volpe, li avevo definiti. Anni dopo i loro nomi ritornano.

copertina libro sabella cacciatore

© Riproduzione riservata