Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.


Il 18 dicembre del 1949, il capitano dalla Chiesa invia il rapporto sull’omicidio di Placido Rizzotto al suo comando e alla

procura della repubblica di Palermo.

Qualche mese prima ha ricevuto in caserma una lettera anonima: «Attento alle perzone che ti faccio presenti io che è stato le carnefici di Placito… prima li fratelli Crisciuna tutte le due, Luciano Liggio...»

Ordina di cercare Pasquale Criscione, lo trovano in casa di un parente, lo arrestano, l’interrogano. Criscione confessa.

Racconta come è stato assassinato il sindacalista, fa i nomi dei suoi complici, spiega che è stato Luciano Liggio «ad esercitare minacce su di lui» per attirare Rizzotto in un tranello.

Pasquale Criscione indica al capitano dalla Chiesa il luogo dove Liggio ha scaraventato il cadavere.

Nella «ciacca», la foiba di Rocca Busambra, i carabinieri della squadriglia di Corleone trovano carcasse di pecore, una pistola arrugginita modello 1899, pezzi di stoffa, una cintura e tre paia di scarponi con dentro resti scheletrici di piedi umani. Il padre di Placido riconosce gli scarponi del figlio.

Individuati gli assassini, a Carlo Alberto dalla Chiesa non resta che scoprire il movente dell’omicidio.

In un secondo rapporto, trasmesso il 30 maggio del 1950 – sei mesi dopo il primo – il capitano raccoglie tutte le prove contro Liggio e le elenca, punto per punto, ai giudici.

Il carabiniere è convinto che il mandante sia lui, Liggio. E non Michele Navarra, come si mormora in paese. Carlo Alberto dalla Chiesa sa tutto di Navarra. Sa anche che viene chiamato u’ Patri Nostru, il Padre Nostro. Ma non è stato il dottore. È stato quel pazzo di Luciano Liggio. Ha voluto punire Rizzotto per aver difeso alcuni compagni di passaggio a Corleone, ex partigiani aggrediti dagli sgherri mafiosi.

Una delle prime scorribande solitarie di Lucianeddu che si sta «allargando» sempre di più in paese, che vuole diventare anche lui un capo. Se ne accorgerà anche il vecchio medico condotto di Corleone. Ma per lui sarà troppo tardi.

Nel suo rapporto ai giudici, Carlo Alberto dalla Chiesa parla di «una mafia che è autentica delinquenza» e che è in guerra con lo Stato e le sue leggi.

Il capitano spiega Cosa Nostra prima della scoperta di Cosa Nostra.

Per gli italiani la mafia è ancora un oggetto sconosciuto, credono che sia un’«onorata società» custode dei valori più autentici della Sicilia e della sicilianità: lealtà, rispetto, onestà. Anche i magistrati di Palermo che ricevono il rapporto dal capitano dei carabinieri di Corleone dicono mafia e intendono giustizia.

Una ventina di giorni dopo la stesura del secondo rapporto, il Comando Generale dell’Arma dei carabinieri trasferisce il capitano dalla Chiesa. D’urgenza. Le ragioni non gli vengono comunicate. L’ordine è di rientrare nella città che ha lasciato anni prima.

All’inizio dell’estate del 1950, è già a Firenze.

Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, «presunti assassini» di Placido Rizzotto, vengono tutti assolti dall’accusa di omicidio. Il dottore Navarra, u’ Patri Nostru, è ucciso otto anni più tardi da Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.

Nel 1961, Carlo Alberto dalla Chiesa finisce fra le pagine de Il Giorno della Civetta, il libro di Leonardo Sciascia che racconta la mafia all’Italia. Nel romanzo, il personaggio è il capitano Bellodi, ufficiale del Nord, originario di Parma, che appena trasferito sull’isola comincia a indagare su un delitto compiuto in un paese del palermitano. È un giovane ufficiale che crede nella democrazia, nella legge, nell’integrità degli uomini. Proprio come Carlo Alberto dalla Chiesa.

Il capomafia si chiama don Mariano Arena e tutto può in quel paese. Proprio come Michele Navarra detto u’ Patri Nostru.

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