Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

La parola depistaggio è entrata a pieno titolo nel dizionario delle stragi di questo Paese, quale perfetto contrario dei termini verità e giustizia.

Il depistaggio sull’eccidio di via D’Amelio presenta, però, una caratteristica che lo rende diverso rispetto a tutti gli altri: è stato, sebbene solamente in parte, svelato. Ed è proprio ciò che lo rende, come ha evidenziato durante la sua audizione il procuratore generale Scarpinato, più che mai attuale.

Non deve stupire che oscuri meccanismi, oggi, si pongano strenuamente in difesa della ricostruzione falsa e consolatoria proposta da Scarantino e dai suoi suggeritori: allargare lo sguardo su cosa accadde in quei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, sulle inquietudini del giudice Borsellino, su ciò che aveva intuito o saputo e che si preparava a dire; raccontare quella strage non come un ultimo disperato colpo di coda di Cosa nostra ma come il punto d’arrivo di un disegno più ambizioso e devastante per i destini del Paese: insomma, parlare di via D’Amelio sapendo di non poter parlare solo di mafia è cosa che fa ancora paura. A ventinove anni dalla morte di Paolo Borsellino, si preferisce che la corda pazza di quella strage non venga sfiorata. E i depistaggi, ieri come adesso, sono lo strumento più efficace.

Come si costruisce una menzogna alla quale tutti – o comunque troppi –finiscono per credere? È stata la domanda che ci siamo posti all’atto di avviare questa seconda inchiesta. E qui ci siamo misurati con il significato plurale della parola “depistaggio”: non una trama sinistra ordita da uno sparuto manipolo di soggetti, ma un pensiero organizzato, spregiudicato, capace di una sua continuità ed impunità nel tempo, coperto da inconfessabili complicità.

È grave che l’intelligence italiana abbia accettato - e continui ad accettare - di convivere con il sospetto di un terribile coinvolgimento dei suoi apparati in una delle pagine più nere della nostra storia. Un rischio collaterale sopportabile, a quanto pare. Non una voce, in questi anni, una preoccupazione, un disvelamento sulla catena di comando che portò il Sisde ad aver un ruolo da protagonista nelle prime battute di quel depistaggio; non una parola o un dubbio sui signori in giacca e cravatta che quella domenica pomeriggio si trovavano tra le fiamme di via D’Amelio alla ricerca dell’agenda rossa.

FOTO DI REPERTORIO Foto LaPresse 23-05-2012 Vent'anni dalla strage di Capaci

Ma fu depistaggio anche tutto ciò che precedette quella maledetta domenica. Come il progressivo e calcolato isolamento, professionale e umano, cui fu sottoposto Paolo Borsellino. Aspetti, quelli legati ai rapporti con Giammanco e alla carenza del dispositivo di sicurezza intorno al magistrato, che avrebbero preteso puntuali approfondimenti da parte dell’Autorità Giudiziaria – come abbiamo evidenziato in molte pagine di questa relazione – ma che l’“invenzione” di Scarantino oscurò del tutto.

E non si può, infine, tacere il senso di rassegnazione con cui in troppi hanno accolto ed accettato i silenzi di questi 29 anni, i ripetuti furti di verità, le forzature istituzionali, le ansie di carriera, i silenzi di chi avrebbe potuto dire. Come se davvero su questa storia e sulle responsabilità (non solo penali, lo ripetiamo!) che l’hanno accompagnata, occorresse rassegnarsi al silenzio.

Questa seconda relazione della Commissione Antimafia dell’Ars – come la precedente – vuole essere anche questo: una sollecitazione civile a non abituarsi all’idea che la verità ci sia negata per sempre.

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