Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Ostacolato, isolato, professionalmente emarginato, Falcone sceglie di andare a Roma. Borsellino invece resta a Palermo: dopo la morte dell’amico, sente su di sé la responsabilità di dover far tutto ciò che è nelle sue possibilità per ottenere la verità sulla strage di Capaci. È proprio in quei 57 giorni che il rapporto con il procuratore Giammanco s’incrina sempre di più. Fino all’ultima telefonata, la mattina del 19 luglio, su cui torneremo più avanti.

Ci interessa qui ricostruire il clima in cui Borsellino trascorre quei due mesi scarsi di vita che gli restano, la fatica di quei giorni, incisa nel ricordo e nelle parole di molti suoi colleghi, raccolte nel ciclo di audizioni che si svolgono dinanzi al CSM dopo la strage di via D’Amelio, tra il 28 e il 31 luglio 1992.

La lettera della DDA di Palermo

Tutto nasce da un documento molto critico che il 23 luglio otto componenti della DDA di Palermo (Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo, Antonio Napoli, Teresa Principato, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi) redigono per mettere nero su bianco le criticità che affliggono la procura retta da Giammanco e le condizioni di assoluta insicurezza in cui si svolge il loro lavoro. Lo fanno mettendo sul banco le proprie dimissioni dall’ufficio, affinchè sia chiara a tutti la gravità delle loro rimostranze e l’urgenza delle preoccupazioni.

SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Palermo. Dopo la strage di via D’Amelio io prendo l’iniziativa di scrivere un documento, che sono stato costretto a riscrivere quattro volte, perché mi sono fatto il giro di quaranta stanze di sostituti e non riuscivo a raccogliere una firma, e allora l’ho scritto, l’ho riscritto… e non ho avuto adesioni neppure da persone di cui mi sarei aspettato la firma... Alla fine sono riuscito, con l’ultima versione, ad avere otto firme. Quel documento nella sostanza, dopo un cappello che riguardava la sicurezza, diceva che Giammanco non poteva restare alla procura della Repubblica. Non è che fu una cosa facile perché Giammanco era un potente. Il Consiglio Superiore della Magistratura ci convocò e non si sapeva se avrebbero trasferito lui o noi: questa era la partita in gioco.

Un atto di sfiducia senza condizioni. Così lo racconta Andrea Purgatori in un suo articolo del 24 luglio 1992.

E adesso sulla scrivania del procuratore capo Pietro Giammanco, anzi sul tavolo di casa, visto che da 24 ore è “malato”, ci sono le richieste di dimissioni di otto collaboratori. Otto magistrati che con un gesto clamoroso abbandonano la Direzione distrettuale antimafia. Non è una “resa”… ma una «forte denuncia» della necessità che venga riaffermato il «principio di responsabilità» e della gravissima «mancanza di volontà politica, inefficienza amministrativo-organizzativa e impreparazione tecnica che hanno impedito al Viminale e agli organi di polizia di svolgere sul campo un’efficace prevenzione del terrorismo mafioso», di «proteggere i bersagli più esposti e sventare stragi annunciate». Un atto d’accusa che colpisce il sistema giudiziario al più alto livello nella persona di Giammanco (una guida “non” autorevole evidentemente) come le strutture dello Stato (con il ministero dell’Interno in testa).

(…) «Siamo ancora disposti anche a sacrificare le nostre vite, ma a condizione di sentirci partecipi di uno sforzo collettivo» dicono gli otto. Ma nulla potrà cambiare se la Procura non recupererà «quella unità di intenti, quello spirito di collaborazione, che oggi appaiono compromessi». Una situazione insostenibile «com’è dimostrato dall’esistenza di divergenze se non da spaccature divenute financo di pubblico dominio dopo la strage di Capaci, ulteriormente acuitesi dopo la strage di via D’Amelio, divergenze e spaccature che solo una guida autorevole e indiscussa potrebbero ricomporre e sanare». (…) L’invito al Procuratore capo perché si faccia da parte è secco. Corroborato dalla «piena solidarietà ai colleghi dimissionari» da parte di altri nove giovani magistrati della Procura.

L’istruttoria è affidata al “Comitato Antimafia” del CSM. Quattro giorni di sedute a porte chiuse in cui emergono tutte le tensioni e le contraddizioni che animano il distretto giudiziario palermitano. Alla fine il procuratore Giammanco, uno dei primi ad essere sentito, negherà tutte le accuse mossegli rifugiandosi dietro una domanda di trasferimento che verrà accolta nel giro di poche ore [nell’agosto dello stesso anno].

Di quei verbali si perderà ogni traccia per ventotto anni. Verranno secretati e messi da parte: perché?

Il CSM e Giovanni Falcone

Una risposta prova ad offrircela, nel corso della sua audizione, il giornalista Salvo Palazzolo.

PALAZZOLO, giornalista de La Repubblica. Io ho cercato di approfondire con i componenti dell’epoca del CSM, ma ho incontrato una certa ritrosia e, sostanzialmente, nessuna spiegazione plausibile… Forse all’epoca c’era la preoccupazione di mettere nel circolo le attenzioni di Borsellino. Ricordo quando ebbi la possibilità di fare una conversazione lunga con la signora Agnese Borsellino, la signora Agnese mi raccontava che nei primi tempi lei era invitata a incontri importanti, ma il motivo era sempre uno: autorevoli rappresentanti dello Stato, rappresentanti delle forze dell’ordine, esponenti della magistratura le facevano sempre la stessa domanda: «Paolo cosa aveva scoperto? Cosa stava facendo Paolo?».

Ancora più netta è la valutazione di uno degli otto firmatari di quel documento, l’avvocato Antonio Ingroia. Non era un caso, ci dice durante l’audizione, che quei verbali fossero finiti “nel dimenticatoio nazionale”:

INGROIA, già magistrato. È lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura che aveva bocciato più volte Giovanni Falcone… Così come qualche anno prima Paolo Borsellino aveva rischiato di essere sottoposto a procedimento disciplinare perché aveva rilasciato un’intervista dove aveva denunciato il calo di tensione sulla lotta alla mafia… la vicenda Meli, Falcone, eccetera…

E ancora, aggiunge Ingroia, c’era il timore fondato che potesse passare un messaggio sbagliato, quello della protesta come strumento dialettico “vincente” in seno all’organo di autogoverno della magistratura.

INGROIA, già magistrato. Alcuni componenti, quelli più ‘vicini’ – tra virgolette - alla nostra posizione, ci comunicarono, come indiscrezione, che stavamo rischiando di essere sottoposti a procedimento disciplinare perché avevamo osato ribellarci al capo.

FAVA, presidente della Commissione. Per la lettera che avevate scritto.

INGROIA, già magistrato. Per la lettera degli otto, perché altrimenti passava il principio che basta una ribellione di alcuni Pm per rimettere in discussione l’autorità del capo dell’ufficio.

FAVA, presidente della Commissione. Ovvero, basta una strage di mafia per esprimere qualche perplessità sulla sicurezza.

INGROIA, già magistrato. Esatto. Nel contempo, però, qualcuno consigliò a Giammanco, in modo – con tutto il rispetto del termine che userò – molto democristiano, di fare domanda per andare via, andare in Cassazione. Così lui fece e il CSM ha chiuso: non era accaduto nulla, nessuno era stato sottoposto a procedimento disciplinare, Giammanco aveva tolto il disturbo. Poi venne Caselli e tutto passò in cavalleria.

L’ex Pm non si risparmia, in conclusione, un’ulteriore riflessione su quella secretazione durata decenni.

INGROIA, già magistrato. In occasione di un anniversario, non ricordo quale, il CSM si vantò di avere proceduto alla desecretazione di tutte le audizioni che riguardavano Falcone e Borsellino: vero, furono desecretate quelle in cui avevano parlato loro, Falcone e Borsellino, da vivi. Ma rimasero segrete le audizioni successive, quando loro erano morti.

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