Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata al depistaggio sulla strage di via D’Amelio, nella quale morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Nella prima relazione sul depistaggio di via D’Amelio abbiamo provato a ricostruire il repertorio di forzature giudiziarie, contraddizioni investigative, reticenze e manifeste illiceità che caratterizzarono le prime fasi dell’indagine. Torneremo più avanti sul significativo ruolo d’indagine affidato, contra legem, al Sisde. Qui ci interessa approfondire alcuni passaggi che si sono rivelati determinanti nella costruzione del falso pentito Scarantino.

Il primo ci porta sulle tracce di un altro detenuto, Vincenzo Pipino, mandato da La Barbera a raccogliere in carcere le confidenze di Scarantino; il secondo ci conduce a Pianosa, e agli strumenti di persuasione che in quel carcere vennero utilizzati senza alcun imbarazzo; il terzo ci porta da Spatuzza, collaboratore decisivo per smontare il teorema Scarantino, e proprio per questo destinato, nelle intenzioni di taluni, a non essere creduto né protetto; il quarto riguarda Giovanni Brusca e alcune sue anticipazioni profetiche su Scarantino.

Un ultimo approfondimento riguarda Giuseppe Graviano, che di Spatuzza era il capo mandamento. E che su quei giorni e quei fatti conserva non solo memoria, ma anche – è assai probabile - segreti mai rivelati, e mai svelate verità.

Il “ladro gentiluomo”

Una delle prime significative tessere per imbastire il depistaggio su via D’Amelio passa da una cella del carcere di Venezia. Ed ha come protagonisti il questore di Palermo Arnaldo La Barbera e un detenuto dalla storia malavitosa non comune: si chiama Vincenzo Pipino, oggi ha 77 anni ed è un personaggio famoso, come dice la sua pagina Wikipedia, in versione italiana ed inglese.

È stato autore di rocamboleschi furti di opere d’arte a Venezia, ha scritto libri sulle sue avventure di “ladro gentiluomo”, ha trascorso 26 anni della sua vita nelle carceri. Nel 1992 era a Rebibbia, accusato di gravi delitti, quando ricevette una “proposta” dal dottor La Barbera, che Pipino conosceva molto bene.

Molti anni dopo raccontò quella storia al giornalista e scrittore Maurizio Dianese, che la pubblicò sul “Gazzettino” (“La pista Scarantino venne costruita a Venezia”) e lo convinse a testimoniare a Caltanissetta. Pipino andò, e tutti i magistrati caddero dalle nuvole, perché questa storia avrebbe dovuto rimanere segreta.

Pipino raccontò di essere stato portato da Roma a Venezia per strappare confidenze a Scarantino appena arrestato e anche lui trasportato nel carcere del capoluogo veneto (nessun magistrato fu mai informato di questa operazione). Pipino racconta di essersi trovato di fronte una persona innocente, oltreché analfabeta.

Ma La Barbera, come riferisce in Commissione, non gradì affatto il risultato di quella consulenza e a Pipino seguirono solo dei guai.

FAVA, presidente della Commissione. Ricostruisco, per sua memoria ed anche per la memoria dei colleghi, lei venne contattato, mentre si trovava detenuto a Regina Coeli dal dottor La Barbera che le dice: “avremmo bisogno che tu fossi disponibile a trasferirti a Venezia nella stessa cella di questo detenuto, Scarantino, per provare a capire che cosa sa e che cosa non sa”. Ci può raccontare un po’ questa proposta di La Barbera? Che cosa voleva ottenere La Barbera da questa vostra convivenza nella stessa cella?

PIPINO. Penso che La Barbera abbia avuto solo il compito di accompagnarmi, mentre penso che tutta questa storia sia stata imbastita da qualche altro. Però quando lui si è avvicinato a me e mi ha detto questa cosa – perché è strano che La Barbera venga, su sessantamila detenuti che abbiamo in Italia, proprio da me, pur sapendo che il mio carattere non è quello di collaborare con chi che sia - ho accettato perché ho avuto un input di curiosità. E quindi sono andato in questa cella con questo Scarantino.

FAVA, presidente della Commissione. Le offrì qualcosa La Barbera? Denaro?

PIPINO. Sì, mi offrì denaro, ma io ho sempre rifiutato.

FAVA, presidente della Commissione. Quando la venne a cercare, sapeva che La Barbera aveva collaborato e collaborava con i Servizi segreti?

PIPINO. Conoscevo molto bene La Barbera perché, diciamo, che era un mio “nemico”, nel senso che lui dava sempre la caccia a me per via dei furti che facevo in Canal Grande oppure in qualche gioielleria fuori Venezia

FAVA, presidente della Commissione. Deponendo in più processi a Caltanissetta, lei ha ricordato che in questo viaggio in macchina che faceste da Regina Coeli fino a Venezia era accompagnato da La Barbera e da altre tre persone, tutte in borghese; ad un certo punto, in autogrill, lei e La Barbera scendete, i tre restano in macchina e La Barbera le dice “…di queste cose di cui stiamo parlando non dire nulla a questi tre signori che ci accompagnano”.

PIPINO. Sì, sì, è vero… lui li ha tenuti all’oscuro di tutti i discorsi che facevamo io e lui… anche quando gli ho detto “gira la testa dall’altra parte che questo è innocente” e lui mi ha detto “tienitela per te”. Sì, è vero, lui mi ascoltava da solo, gli altri tre non penso fossero informati di quello che voleva La Barbera.

FAVA, presidente della Commissione. Com’è che lei si accorge o si convince che Scarantino non c’entra nulla?

PIPINO. Quando entro in cella da lui mi accorgo anzitutto di un ragazzo molto educato perché dormiva al primo piano di due brande e si è subito occupato di alzare la sua branda e mi ha dato quello più in basso, essendo io più anziano. Per metterlo in condizioni di non potersi ‘nuocere’, al di là che fosse colpevole o innocente, gli scrissi in un bigliettino: “non parlare, non dire niente perché ci sono i microfoni…”. Lui non sapeva leggere e allora io mimando gli ho fatto capire di non parlare dei fatti suoi e di parlare, eventualmente, sotto la doccia, quando non c’è nessuno… Era disperato e non sapeva neanche perché fosse imputato… piangeva, pregava… era preoccupato per la moglie, per i figli, tant’è che gli ho scritto io a loro un paio di lettere perché lui non sapeva scrivere.

FAVA, presidente della Commissione. È vero che siccome non sapeva firmare, Scarantino metteva la mano sul foglio e passava la penna a contorno delle dita?

PIPINO. Lui metteva la mano sulla carta e faceva il disegno della mano, come dire ‘mano pulita’.

Scarantino, dice Pipino, non sa leggere né scrivere. Firma le lettere che il compagno di cella gli scrive ricalcando il profilo della propria mano. Una condizione insolita per un collaboratore di giustizia ritenuto attendibile per più di diciassette anni. Questo il giudizio del giornalista Enrico Deaglio, audito in Commissione, che quel Vincenzo Pipino conobbe e fece parlare pe primo molti anni fa.

DEAGLIO, giornalista. Se penso che Scarantino sia stato, come posso dire, certificato per la sua attendibilità da qualcosa come trenta magistrati, perché ha fatto tre gradi di processo, in tre processi diversi… e nessuno si è accorto che non sapeva né leggere né scrivere? Io trovo tutto questo incredibile! Penso, insomma, che anche nella magistratura siciliana tutti sapevano che Scarantino era fasullo, tutti lo sapevano… Nessuno, però, nessuno ha avuto la coscienza civile di dirlo e di interrompere questo scempio!

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