Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a don Pino Puglisi, parroco che aveva sfidato i boss del quartiere Brancaccio a Palermo offrendo ai ragazzi un’alternativa ai fratelli Graviano, ucciso nel 1993.

La verifica giudiziale delle prove raccolte nel presente procedimento utilizzate per la ricostruzione della vicenda omicidiaria che ci occupa e per l’affermazione della responsabilità degli autori dell’efferato delitto, non può prescindere dalla disamina, sia pure breve, del contesto ambientale in cui è inserito il grave episodio criminoso e dell’aggregato criminale imperante nell’ambito territoriale in cui il delitto è maturato ed è stato portato a compimento.

Già i giudici di prime cure si sono soffermati sul contesto ambientale in cui è maturato ed è stato eseguito l’omicidio di don Pino Puglisi, e questa Corte non può che condividere quanto dagli stessi affermato in merito

Il contesto è quello di una borgata della periferia degradata della città di Palermo, in cui, all’epoca dei fatti, tra l’altro, regnava sovrano l’ordine mafioso, conservatore, opprimente e reazionario, che era stato imposto dal gruppo criminale emergente della zona.

Tutte le deposizioni testimoniali delle persone che affiancarono don Pino Puglisi nel suo apostolato, hanno evidenziato la difficile e triste realtà del tipico quartiere degradato della periferia, composto da un agglomerato urbano disomogeneo, lasciato in totale stato di abbandono: non esistevano, infatti, i servizi essenziali, come le fognature, ed i liquami si riversavano per strada, mentre le autorità competenti, il cui intervento era stato più volte richiesto, avevano eseguito dei lavori fognanti solo parziali che non avevano per nulla risolto il problema.

Un quartiere degradato

La zona era infestata anche da topi e non si era proceduto ad una efficace opera di bonifica. Mancava una scuola media. Non vi erano spazi verdi per i ragazzi che giocavano in mezzo alle immondizie, né altri servizi sociali.

Ma nel quartiere esisteva anche un grave arretramento culturale e vi era la presenza di un alto potenziale criminogeno: la gente viveva ed operava sotto una cappa di dominio e sopraffazione, subiva impotente un clima di intimidazione, correva rischi concreti se si fosse adoperata solo per migliorare le condizioni minime di sopravvivenza civile degli abitanti o per favorire un processo di avanzamento del fronte della legalità.

Al riguardo, i primi giudici hanno così scritto: “La radiografia del quartiere, all’epoca della commissione dell’omicidio di padre Puglisi, infatti, alla stregua delle ampie e dettagliate descrizioni rassegnate dai testi esaminati, consente di tracciare una geografia di poteri locali comprendente varie componenti, espressione dell’ambiente politico del tempo largamente inquinato, settori della società civile degradati, amministratori degli enti locali e rappresentanti delle articolazioni di quartiere per buona parte corrotti o collusi, esercenti attività economiche fortemente condizionati, un’accentuata presenza di malavitosi e gente di malaffare, in un tessuto storico sociale caratterizzato da violenza e sottocultura: in questo contesto la parrocchia, la scuola, il commissariato e poche altre sedi istituzionali non inquinate rappresentavano delle nicchie di legalità mal tollerate dal potentato criminale locale che costituiva allora il centro di coagulo dei delinquenti della zona e di formazione permanente della manovalanza in crescita”. “In un territorio a prevalente sovranità mafiosa , una di queste isole di extra-territorialità era costituita dalla parrocchia di don Pino Puglisi che, per adesioni e progettualità e per la vitalità manifestata, era diventata “un enclave” di valori cristiani, morali e civili”.

Alle eloquenti deposizioni degli amici e collaboratori di padre Puglisi, si affiancano le preziose indicazioni fornite dagli ex malavitosi ed ex criminali di quartiere che, attratti nell’orbita della potente organizzazione criminale facente capo alla cosca di Brancaccio, hanno scelto, immediatamente dopo la cattura, per motivi economici o anche per ragioni di opportunità, la via della collaborazione con la giustizia.

Detti soggetti, con le loro rivelazioni, hanno fornito importanti notizie dirette sulle condizioni di vita e sulle presenze mafiose nel quartiere di Brancaccio.

Sulla base di dette rivelazioni, infatti, è stato possibile ricostruire l’assetto organizzativo criminale del mandamento di Brancaccio, negli anni novanta, sullo sfondo di un quartiere degradato, intriso di sottocultura e di violenza, nel quale aveva trovato spazio ed era radicato il fenomeno della diretta cooptazione di manovalanza delinquenziale per il compimento delle più svariate imprese criminose.

Ma nella stessa area criminale si era verificato anche un intenso fenomeno di “pentitismo”, che aveva consentito di aprire vistose maglie nel blocco fino ad allora pressoché impenetrabile del sistema mafioso imperante nella zona.

Il racconto dei fratelli Di Filippo

Ed infatti, la dirompente collaborazione dei fratelli Di Filippo Emanuele e Pasquale, cui si è aggiunta a breve distanza di tempo la devastante e pur provvidenziale emorragia rappresentata dalle collaborazioni di Calvaruso Antonino, Ciaramitaro Giovanni, Romeo Pietro, Scarano Antonino e Trombetta Agostino, hanno consentito di scoprire dall’interno i segreti del citato mandamento mafioso, di indicare gli esponenti di rango della gerarchia mafiosa nell’articolazione locale del sodalizio, di operare la ricostruzione delle relazioni della cosca con soggetti ad essa esterni nonché di individuare i responsabili dei più gravi fatti delittuosi addebitabili agli uomini d’onore ed ai componenti del gruppo operativo di quel quartiere.

Si è appreso, in tal modo, che il gruppo operativo, all’interno del mandamento di Brancaccio, all’epoca dell’omicidio di Padre Puglisi, faceva capo ai fratelli Graviano, prima; a Mangano Antonino ed a Bagarella Leoluca dopo; il Mangano è stato indicato dai collaboranti unanimemente come il portavoce dei fratelli Graviano e, dopo il loro arresto, avvenuto nel gennaio del 1994, come il loro successore per diretta investitura del Bagarella, divenuto esponente di vertice dell’associazione mafiosa, alla guida di quel territorio, senza che per altro venissero recisi i collegamenti con i detti fratelli detenuti, i quali continuavano a dare disposizioni e ad impartire ordini anche dall’interno del carcere.

Nell’anno in cui è stato assassinato il coraggioso prete della Diocesi di Palermo sono accaduti diversi episodi criminosi eclatanti, che è opportuno qui ricordare brevemente in quanto, come già detto, riconducibili tutti ad una scelta strategica di terrore perseguita a livello nazionale dall’organizzazione criminale “Cosa Nostra”, la così detta “strategia stragista continentale”, voluta dai vertici dell’organizzazione stessa e tendente a realizzare effetti destabilizzanti per la società civile e per le Istituzioni.

L’anno 1993 si era aperto con la cattura di Riina Salvatore, capo indiscusso di “Cosa Nostra”, ponendo fine ad una lunghissima latitanza. Ma già nel precedente anno 1992 si era assistito ad una stagione di delitti culminati con le stragi Falcone e Borsellino, nonché con altri omicidi eccellenti, quali quelli dell’onorevole Salvo Lima e del finanziere Ignazio Salvo.

La Chiesa nel mirino

E l’ondata di violenza non era destinata ad esaurirsi, poiché era stata scatenata, al contempo, una campagna terroristica da parte di gruppi criminali mafiosi sfociata nei noti attentati del 1993 nelle città di Firenze, Roma e Milano, nella prospettiva di realizzare un clima di destabilizzazione mediante stragi e atti di terrorismo, per finalità di eversione dell’ordine democratico e tendenti ad instaurare nuove relazioni esterne con settori del mondo politico al fine di ristabilire la forza dell’organizzazione mafiosa ed ottenere l’impunità degli affiliati alla stessa.

Sempre nell’anno 1993 venne sferrato un vile quanto feroce attacco ai pentiti con il gesto terribile ed eclatante del rapimento del giovane figlio del collaborante Di Matteo Mario Santo, in seguito barbaramente strangolato e disciolto nell’acido.

Anche la Chiesa è stata colpita per il suo atteggiamento ostile verso “Cosa Nostra”, e l’aggressione venne sferrata con gli attentati dinamitardi in danno di alcuni edifici sacri di Roma, ma, sopra tutto, con l’uccisione di Don Pino Puglisi, esponente di punta del clero siciliano, prete coraggioso che si batteva per gli emarginati, fra i quali la mafia arruola le sue reclute, un prete il cui impegno non si era limitato alla testimonianza della fede ma si era esteso nel sociale, mediante l’attuazione di progetti rivolti ai ceti più umili ed ai diseredati, nel tentativo di avviare un processo reale di rigenerazione collettiva della gente sfiduciata del quartiere di Brancaccio.

Sulle stragi continentali sono stati svolti accurati ed approfonditi accertamenti investigativi, dai quali è risultato che gli attentati erano stati opera dell’ala intransigente di “Cosa Nostra”, facente capo a Salvatore Riina e della quale facevano parte anche i fratelli Graviano, odierni imputati, e che avevano avuto essenzialmente uno scopo terroristico: quello di ingenerare panico attraverso la distruzione di edifici sacri, di monumenti e di bellezze artistiche dello Stato, in modo da costringere le Istituzioni a scendere a patti con “Cosa Nostra” per una modifica della normativa restrittiva della carcerazione cautelare derivante dall’introduzione dell’articolo 41 bis nell’Ordinamento Penitenziario.

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