Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Negli Stati Uniti cominciano a invidiarci il giudice che a Palermo sta per diventare un «problema». Lo chiama quasi ogni giorno Richard Martin, uno dei procuratori di New York che indaga sulla Pizza Connection. Incontra agenti della Dea. Quelli dell’Fbi prima di muoversi sui Gambino d’America chiedono il suo parere. È amico di Rudy Giuliani, che è procuratore e poi sarà sindaco di New York. Ha un rapporto fraterno con Louis Freeh, il futuro capo del Federal Bureau of Investigation. «È un giudice planetario», malignano gli avvocati di mafia. Il suo primo viaggio negli Usa è nel dicembre del 1980.

Da quel momento il legame con gli americani sarà sempre più forte. Anche perché l’inchiesta su Rosario Spatola lo porta a scoprire i retroscena del falso rapimento di Michele Sindona, in fuga da New York e nascosto in Sicilia proprio dagli Spatola e dai loro parenti. Quelli che custodiscono il bancarottiere a Palermo sono anche i capi del colossale commercio mondiale dell’eroina.

Qualche mese prima anche Boris Giuliano, il capo della Squadra mobile di Palermo, intuisce il collegamento di quei trafficanti con Michele Sindona. Lo uccidono la mattina del 21 luglio 1979.

L’omicidio di Boris Giuliano

La sera prima, il 20 luglio, il capocronista mi manda a San Nicola L’Arena. Al «Castello», un night club, si esibiscono Loredana Bertè e Lilli Carati che non è ancora una porno star. Cantano. Sono in redazione da appena due mesi a Palermo, copro i «servizi» più diversi. Quella sera sono lì per gli «Spettacoli». Arrivo al «Castello» con un fotografo, incontro le due ragazze, intorno vedo facce brutte. Non so chi sono, ma non è definitivo: difficile intuirlo. Scoprirò un po’ di anni dopo che nel night – proprio quella sera – c’erano gli stessi mafiosi che hanno ordinato l’uccisione di Boris Giuliano.

L’intervista alla Bertè e alla Carati non uscirà mai. Non ho avuto il tempo di scriverla. Il giorno dopo, poco prima delle 8 del mattino, in redazione arriva la notizia che il capo della squadra mobile è stato ucciso all’interno di un bar, dall’altra parte della città. Vado in via Di Blasi. Uno sgarbato funzionario di polizia – tale Purpi, uno che non gode di buona fama a Palermo – fa abbassare la saracinesca, impedisce a chiunque di entrare. Raccolgo qualche informazione. Torno al giornale. I colleghi più grandi di me sono uno accanto all’altro, in silenzio. Alcuni piangono. Altri hanno gli occhi rossi. Sono tutti amici di Boris Giuliano. C’è Ciccio La Licata. C’è Daniele Billitteri. Ci sono Nino Sofia e Alberto Stabile.

Tutti insieme decidono che nessuno firmerà i propri articoli. È la prima volta. Hanno paura. Sanno troppe cose di Palermo e di una mafia che sta alzando il tiro. L’edizione del giornale L’Ora del 21 luglio 1979 esce con quattordici pagine dedicate all’uccisione di Boris Giuliano. Le firme sono «collettive», tutte racchiuse in un quadratino sotto un titolo. Al direttore non va giù questa scelta, è infuriato. Vuole che ciascuno metta il proprio nome sotto l’articolo. Ma lui sa poco e niente di Palermo. Quei giornalisti, al contrario, sanno tutto. Non cedono. La spuntano loro.

Di sera, i colleghi mi spiegano chi era Boris Giuliano. Un grande poliziotto. Un uomo con la schiena dritta. I loro racconti mi fanno innamorare del personaggio. Scopro che è stato il primo «sbirro» italiano invitato a Quantico, in Virginia, al quartiere generale dell’Fbi per frequentare un corso. A Palermo, lui è morto perché era un passo avanti a tutti. In futuro capiterà a molti altri.

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