Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


La sua latitanza finì con un importante arresto nell’anno 1983, all’Aeroporto di Roma-Ciampino su un volo Alitalia.

La cattura fu l’inizio del periodo più sofferente e tormentato della mia vita e di quella della mia famiglia. Le porte della galera si aprirono per lui, ma contestualmente anche per noi. Cominciarono i duri anni di incessanti viaggi nelle più disparate strutture penitenziarie. Puntualmente ogni quindici giorni partivamo in macchina, o con altri mezzi, per raggiungerlo ovunque si trovasse.

Mia madre non resse il colpo. Perso il suo grande amore e diventando sempre più dipendente dall’alcol, non trovò più motivazioni per rimanere in Sicilia. Se ne andò poco dopo l’arresto, a Belluno. Non l’ho mai perdonata per aver lasciato me e mia sorella, crescendo però ho compreso il calvario e l’immensa sofferenza che tutta la situazione aveva provocato nel suo fragile e instabile animo.

A causa di quell’arresto, il suo principe non c’era più e lei si trovò sola a vivere in una realtà ben strutturata, consolidata, tipica delle famiglie mafiose siciliane dove, per le regole e la disciplina introiettate, la moglie di un «uomo d’onore», massimamente di un boss, non ha altra scelta che sottomettersi a un regime psicologico e fisico di totale fedeltà, sudditanza e attesa... lunga, incerta, attesa.

Mio padre e il loro amore erano stati la motivazione per vivere una vita ben lontana dalle sue abitudini nordiche. Senza di lui, non riuscì più a tollerare quel mondo «severo e rigido» in cui mai si era ritrovata.

In Veneto, l’attendevano la leggerezza e la vita di una donna libera da occhi indiscreti, etichette, protocolli e barriere sociali; lì Margherita era solo e soltanto Margherita, non la moglie di un potente boss mafioso all’apice della sua carriera. Lì non doveva dare esempio di comportamenti e devozioni, come invece, obbligatoriamente, tutte le donne di mafia devono fare. Le famiglie del detenuto, il loro tenore di vita, la loro seria e rigida condotta quotidiana sono lo specchio di chi sconta la galera, ed è fondamentale essere all’altezza più che mai, quando l’uomo di casa è arrestato.

La moglie e i famigliari dei mafiosi entrano in «lutto» dal giorno successivo all’arresto del proprio caro. Inizia una vita di basso profilo, divisa esclusivamente tra la crescita dei figli e il servigio di moglie e, nel caso, nuora devota che assolve tutte le richieste e gli ordini da parte di chi la libertà non l’ha più. È un accordo silente e implicito al quale le consorti di uomini mafiosi, soprattutto di un certo calibro, devono sottostare senza nessun atto di ribellione, accettando senza discutere i sacrifici e le privazioni che l’arresto induce, portando avanti con esclusiva dignità e amore la famiglia che rimane fuori. E per quel vincolo di sangue, restano in carceri mentali ben più opprimenti di quelle dello Stato.

Per una ragazza di rara bellezza e con una mentalità nordica, che vede la libertà come un valore assoluto e sacro, era impossibile resistere a tante limitazioni e restrizioni, soprattutto quando il suo uomo era in galera e con una richiesta ufficiosa di sedici anni di detenzione. Le uniche persone che scandivano le sue giornate, e con le quali le era concesso passare del tempo, erano i genitori e i famigliari di suo marito, perfetti estranei, che mai le avrebbero consentito neanche una semplice pizza fuori, una sera, con un’amica.

Era troppo per Margherita, la libera Margherita che, avendo anche lei una madre alcolizzata, della libertà aveva fatto una missione di vita. Così in un colpo solo, mia sorella Francesca e io perdemmo padre e madre, rimanendo a vivere in modo altalenante (soprattutto io) con i nonni paterni e con la zia Clementina, sorella di papà, che ci amava sopra ogni cosa. Loro sottostavano alle indicazioni che mio padre forniva dal carcere, riguardo alla nostra educazione. Si preoccupava perfino del nostro abbigliamento e dei nostri più piccoli desideri. Ogni settimana, puntuale, arrivava dal carcere una sua lettera, dove dava disposizione di tutto quello che andava fatto e comprato per renderci felici. […].

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