Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Un giorno, era il 23 maggio 1992 (nostra nonna era morta da pochi mesi), durante la messa in onda del telegiornale fu diffusa la notizia della strage di Capaci: Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta – Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani – morirono in seguito all’esplosione di tritolo sull’autostrada.

Vedemmo il nonno sussultare, dopo tanto tempo, per la prima volta. Sembrava provasse gioia; io e mia sorella ovviamente non capivamo perché fosse contento davanti a quelle orribili immagini di morte. Anche se per educazione ricevuta non sentivamo come nostra la tragedia, quelle morti si aggiungevano ad altri atti violenti che negli anni erano avvenuti nella nostra isola, nella nostra città. In quel periodo, eravamo ancora convinte che la polizia e le forze dell’ordine fossero i cattivi della situazione, le persone responsabili della lontananza di nostro padre.

In casa se ne parlava, ma noi per sapere qualcosa dovevamo origliare e per comportamento assorbito, diventato «naturale», sapevamo quando chiedere e quando tacere. Per una volta, tuttavia, davanti a quelle immagini talmente forti ed essendo sole con il nonno che gioiva dopo tanto tempo, chiedemmo il perché della «bella notizia».

Lui ci rispose che quell’uomo, Giovanni Falcone, era uno dei principali accusatori di papà e che finalmente, con la sua morte, ci sarebbero state probabilità di riavere nostro padre a casa. A quella risposta, io e mia sorella non facemmo altro che accodarci alla sua gioia, sperando più che mai che papà potesse ritornare a casa prima possibile, a maggior ragione perché dopo la scomparsa della nonna la nostra vita non era più la stessa.

Nonostante la presenza della signora Nuccia e le visite continue di zia Clementina, io e mia sorella Francesca provavamo un triste senso di abbandono, costrette spesso a fare fronte a problemi di vita quotidiana ai quali non eravamo abituate: la nonna era stata per anni il centro della nostra vita, la nostra casa.

Continuarono a passare i mesi e, nel frattempo, apprendemmo della successiva strage in cui a cadere fu Paolo Borsellino, che aveva raccolto l’eredità di Giovanni Falcone. Anche quello, da quanto percepivamo a casa, era un altro punto a favore che rendeva sempre più vicina la possibilità di un rientro a casa di papà.

Ironia della sorte, un «dispetto» della vita a mia nonna, che aveva perso la salute e la serenità a causa delle travagliate vicende penali di mio padre, iniziarono ad arrivare flebili segnali di una sua possibile libertà. In quell’anno, ottenne uno o due permessi premio di quindici giorni ciascuno per buona condotta, che portarono poi alla definitiva sospensione della pena per aver scontato undici anni dei sedici e mezzo di condanna a suo carico.

Un’amica di papà

In quel periodo, dopo una delle sue visite e il rientro in galera, un tardo pomeriggio citofonò a casa nostra una donna, presentandosi come Cettina Strano, un’amica di papà. Salì a casa, con il permesso del nonno.

Un breve silenzio e poi il nonno ci lasciò insieme a lei – forse già sapeva, sempre noi eravamo le ultime – con un lieve imbarazzo che subito superò, dicendoci che, a seguito della sopraggiunta mancanza della nonna, papà era molto preoccupato per noi e le aveva espressamente chiesto di starci vicino fino al suo ritorno a casa. Io e mia sorella eravamo un po’ perplesse, tuttavia eravamo sempre preparate agli imprevisti, tanti ne avevamo vissuti di dolorosi. E Cettina ci fece subito una buona impressione.

Era diretta nel parlare ed era una bella donna «moderna» dai capelli scuri sciolti sulle spalle, con una tuta intera di jeans nera e stivaletti di pelle. Abbigliamento e modo di fare che a noi erano stati proibiti a causa dell’educazione conservatrice che da sempre vigeva nella nostra famiglia. La nonna aveva lasciato la sua impronta. E per mio padre, i jeans li indossavano solo i «figli di nessuno». Vedere quella donna così giovane e libera fu per noi una ventata di novità. Era uno spiraglio di vita diversa.

Avremmo avuto qualcuno con cui condividere le nostre idee più frivole e «trasgressive». Da quella sera, sempre verso lo stesso orario, si ripeté la visita da parte di Cettina.[...] Non ci volle molto a conquistare la nostra simpatia e fiducia; il tardo pomeriggio, quando smetteva di lavorare, la aspettavamo con trepidazione. Andammo avanti così per i mesi a seguire, fino a quando finalmente arrivò la tanto attesa e sperata notizia del rientro di mio padre. Questa volta, però, era il sogno che si avverava, non si parlava più di quindici giorni di permesso ma di un lungo periodo di permanenza.

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