Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Uno dei penitenziari più squallidi e poveri che ricordo è sicuramente l’Ucciardone. Per noi era una fortuna in termini di distanza, due o tre ore di viaggio rispetto alle dodici, spesso diciotto, che di solito affrontavamo. Bastò poco davvero per augurarci di rifarle. Una struttura penitenziaria così brutta, sporca e fatiscente non l’avevo mai vista.

Lo stesso degrado che appariva agli occhi era proporzionale alle famiglie dei detenuti che vedevamo all’interno. Negli occhi di mia nonna, in quelle occasioni, si leggeva a tratti la vergogna di trovarsi in luoghi del genere, lei che era una donna molto colta e di gran classe, che utilizzava sempre lo stesso stile nel vestiario: abiti di seta con fantasia floreale o gonne scure con camicie di seta; possedeva anche diversi torchon, collane con fili di perle intrecciati o di pietre preziose in colori diversi, che abbinava alla tonalità predominante del suo abbigliamento.

Non era una donna molto appariscente nonostante la sua bellezza, i dispiaceri erano impressi sul suo viso e nei suoi grandi occhi verdi. Ho sempre pensato che mio padre fosse un po’ il figlio prediletto, per la sua bontà d’animo, per i suoi sbagli, perché come ogni degna madre aveva per lui tanti altri rosei progetti sfumati.

[…] La devastazione arrivò con l’Asinara. Quella volta non ci giunse nessuna telefonata per avvisarci del trasferimento; ci trattarono come bestie, così mi sentii: solo all’esibizione dei documenti all’ingresso del penitenziario a Lecce ci informarono del cambiamento di detenzione. L’ennesima tragedia che dovemmo affrontare. Nonostante mia sorella e io non sapessimo all’epoca neanche cosa fosse l’Asinara, ci fu subito chiaro dal gelo che calò su nostra nonna: sembrava una statua di ghiaccio. Si immobilizzò.

Come sempre sapevamo quando chiedere e quando no, e così tacemmo, ancora una volta. Rientrati a casa, seguirono giorni inquieti, confusi, e subito iniziarono telefonate allarmate ad avvocati, amici, parenti, tutti dell’ambiente, quello che noi eravamo abituate a frequentare.

Al tentativo di capire perché l’Asinara, si aggiunsero nuove preoccupazioni: per quanto tempo? E come raggiungere l’isola? Quali restrizioni si sarebbero sommate a quelle attuali? La cupezza dei giorni, i troppi silenzi, le frasi interrotte quando noi ragazzine entravamo in una stanza portavano la nostra vita già dolente al limite della sopportazione. Infine si decisero a parlare, non ricordo più chi si fece carico di quella comunicazione delicata.

Due lunghi anni all’Asinara

Del resto non c’era molto da dire: non avremmo visto papà per un po’... Il po’ non fu definito. Il copione restò lo stesso per me e Francesca: pianti, crisi e il non voler accettare quell’ennesimo cambiamento. Era troppo per noi. Una sola visita ogni mese e al colloquio erano ammessi due adulti, famigliari di primo grado.

Per arrivarci ci volevano due giorni di viaggio. Ci fu sospesa anche la telefonata mensile alla quale avevamo abitualmente diritto. L’Asinara durò due lunghi e incessanti anni di calvario, per noi che fummo private di quell’ora di amore e per mia nonna che, a ogni rientro, nonostante tentasse di mascherare e di non farci sentire il resoconto del viaggio, tornava con cinque anni di vita in meno... Nascoste come sempre a origliare fuori dalla porta della cucina, sentivamo i pianti nei suoi racconti, lamentava di vedere il figlio trattato come una bestia, in una «divisa» da carcerato con i capelli rasati tipo animale e spesso in stato non cosciente come se fosse sedato, drogato. Il suo Gino irriconoscibile.

Di quel periodo, trattengo il fermo-immagine di lei seduta a capotavola nel pomeriggio con le lacrime agli occhi. In un secondo momento, comprendemmo anche la motivazione dell’impossibilità di vedere papà in quell’ennesimo carcere. I controlli vaginali effettuati su di lei, denudata di ogni sua veste e dignità. Quello, senza nessuna ombra di dubbio, fu il periodo più sofferto della detenzione di mio padre. […]

Inutile dire che quegli anni per noi furono secoli, non passammo mai tanto tempo senza vedere il nostro papà. Continuavamo puntualmente a scrivere lettere ogni settimana, anche se devo dire che lo facevamo mal volentieri e solo sotto espressa richiesta di mia nonna, non per un motivo preciso ma credo semplicemente per capricci infantili: perché volevamo continuare a opporci. Dopo quasi due anni, finalmente la bella notizia: papà trasferito di nuovo e portato via dall’isola dell’Asinara.

Per noi figlie cominciò la fibrillazione del tanto agognato incontro per poterlo vedere. In quell’occasione, fu presente anche nostra madre, avvenimento raro, che era scesa dal Veneto per stare con noi (in genere le sue visite non duravano mai più di quindici giorni). Eravamo stati anche fortunati, perché papà era stato portato al Bicocca, detto «l’albergo». All’epoca era una delle ultime carceri costruite a Catania e, quindi, rispetto alle altre molto datate vantava i privilegi e il decoro di una struttura nuova di zecca.

Oggi è un penitenziario «di passaggio», dove i detenuti sono trasportati solo in occasione dei processi. […] Poi, nostro padre fu nuovamente trasferito, non sono certa se subito a Lecce o prima in un’altra struttura, ma fu allontanato un’altra volta da Catania.

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