Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Fu forse per progettare la rivoluzione che Insalaco provò a tessere una rete spericolata di alleanze. Paolo Agnilleri, che in quegli anni era consigliere comunale del Pci, ricorda le frequenti visite del candidato sindaco nelle stanze del settecentesco Palazzo Calatafimi, la sede della federazione comunista: «Cercò una sponda nel Pci.

Ebbe incontri riservatissimi con tutti i maggiori dirigenti del partito: con Michele Figurelli, con Elio Sanfilippo, con Simona Mafai. Garantiva che nella Dc c’era una fronda, che sui grandi appalti si poteva arrivare a soluzioni nuove. Il disegno era smontare Lima e i grandi padroni».

Il giorno stesso dell’elezione di Insalaco, un gruppo di consiglieri comunali del Pci presentò alla Procura della Repubblica un esposto sul mancato rinnovo dei grandi appalti. Sembrò uno sgambetto dell’opposizione al nuovo sindaco. Ma quella mossa – rivelerà anni dopo il comunista Elio Sanfilippo – era stata concordata con Insalaco: facendosi scudo della minaccia di un’inchiesta giudiziaria, si voleva costringere la riottosa maggioranza del Consiglio comunale ad affrontare al più presto la questione dei grandi appalti.

Si trattava, insomma, di una manovra di machiavellismo spicciolo. Ma Insalaco non doveva essere il solo a pensare di poter usare la magistratura per raggiungere i propri scopi. Quasi per un ironico contrappasso, un attimo dopo aver concordato con i comunisti una mossa per piegare la maggioranza ai suoi disegni sventolando la minaccia di un’inchiesta, il nuovo sindaco viene a sapere che la Procura della Repubblica ha ricevuto una lettera anonima contro di lui. Riguarda la vendita del terreno dell’Istituto Sordomuti ai costruttori Saccone. Se è lecito leggere i fatti di mafia in controluce, in una città che dalla mafia è dominata, occorre dire che è un tempo di mutamenti e turbolenze anche per Cosa Nostra.

I Greco e i cugini Salvo

La domenica precedente all’elezione di Insalaco, Gaetano Badalamenti, il boss di Cinisi spodestato dai corleonesi, è stato catturato a Madrid. Gli Usa ne hanno chiesto l’estradizione per processarlo come trafficante d’eroina. Badalamenti è un perdente, come Buscetta.

Negli anni Settanta è stato il capo della commissione di Cosa Nostra. Negli anni Ottanta è dovuto andarsene dalla Sicilia per sfuggire alla caccia all’uomo scatenata dagli uomini di Riina. Ma anche gli alleati dei corleonesi non possono riposare sugli allori. A Caltanissetta, in quei primi mesi del 1984, si svolge il processo per l’assassinio di Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio istruzione assassinato con un’autobomba il 29 luglio 1983. Siede sul banco dei testimoni il capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini.

I Greco, accusa, sono i capi carismatici della mafia. Michele Greco, il rispettato possidente che aveva dato le chiavi dell’incantevole tenuta della Favarella a una sfilza di carabinieri, da colonnelli in giù, da un anno è un latitante. Chinnici – aggiunge il capitano Pellegrini – voleva arrestare i cugini Salvo, «me l’aveva confidato subito prima di essere ucciso». Si scatena un putiferio.

In questa città inquieta, Insalaco fa davvero una rivoluzione. Comincia dalla burocrazia: gli intoccabili. Appena eletto, trasferisce d’autorità cinque dipendenti comunali, sotto inchiesta per reati che vanno dal traffico di droga alla truffa. Ordina la rotazione di tutti i capi-ripartizione, un modo per schiodare clientele consolidate e incrostazioni d’affari. Rimuove l’alto funzionario che da solo, uno e trino, dirige il macello, il mercato ittico e quello ortofrutticolo; lo sostituisce con tre nuovi direttori.

Richiama i vigili urbani in servizio nelle segreterie degli assessori e li rimette al lavoro sulle strade, nel traffico. Ordina che le auto blu servano «solo per motivi di ufficio» e ne limita l’uso ad assessori, segretario generale e capo di gabinetto, togliendole all’alta burocrazia. Le auto blu, i dipendenti infedeli, la rotazione dei dirigenti: è l’eterno ritorno del sempre uguale nella politica italiana. Ma per una volta, c’è un uomo che sembra fare sul serio. È forse quell’inspiegabile esuberanza a convincere i padroni di Palermo a tirare le briglie al nuovo sindaco.

L’azienda dei Cassina

Insalaco è stato eletto da dieci giorni appena quando il ragioniere generale gli comunica che il Comune ha un debito di almeno ottanta miliardi con la Lesca-Farsura, l’azienda di Cassina che cura con tanto zelo la manutenzione di strade e fogne da custodire nei propri uffici la mappa delle fognature di Palermo, rifiutando di consegnarla al Municipio. Forse, aggiunge il capo della ragioneria, i miliardi sono cento. Forse, corregge, sono centoquarantadue: gli uffici comunali non lo sanno con precisione. Non è un debito: è un abisso.

Insalaco reagisce ordinando che si blocchino i pagamenti all’impresa. Scrive a tutti gli uffici interessati, dalla ragioneria generale all’ufficio legale, chiedendo che gli vengano mostrati, se esistono, i documenti che giustificano quel debito colossale. Sollecita, sempre per iscritto, una riunione tecnica per valutare il contenzioso con l’impresa. La lettera semina il panico. Non avrà risposta.

Nel suo Anatomia di un istante, serrata ricostruzione dell’attimo che, il 23 febbraio 1981, segnò insieme l’esordio e il fallimento del golpe tentato dal tenente colonnello Antonio Tejero nel Parlamento spagnolo, Javier Cercas annota: «Borges dice che “qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: quello in cui l’uomo sa per sempre chi è”». Io credo che per Insalaco quel momento sia venuto allora. Capì che lo avevano scelto perché lo credevano capace di tutto. E diventò davvero capace di tutto. Ma per orgoglio, non più per ambizione. E se il tutto di cui lo credevano capace era il piegarsi e servire, il tutto di cui divenne capace fu la ribellione. Non era una scelta facile.

Quando il nuovo sindaco scrive un perentorio «non si paghi» sui mandati intestati alla Lesca, Arturo Cassina è una potenza. Ha il pacchetto azionario di aziende che operano in Italia, in Svizzera, in Libia, in Medio Oriente. Possiede due banche e una società di assicurazione.

Figura tra i fondatori della Cross Air, la seconda linea aerea elvetica. Ed è il luogotenente per la Sicilia dell’Ordine del Santo Sepolcro, fondato all’epoca delle Crociate da Goffredo di Buglione per custodire a Gerusalemme la chiesa del Santo Sepolcro e diventato, quasi mille anni dopo, a Palermo, sotto la guida accorta di Cassina, una sorta di club esclusivo che riunisce l’élite della città – i poteri forti, si sarebbe detto qualche anno più tardi.

Nell’aprile 2014 un’ordinanza cautelare del gip di Roma sintetizzerà così i confini dell’impero, ormai in rovina: «Negli anni ’80 alla famiglia Cassina era riconducibile un gruppo imprenditoriale costituito da ben 67 società, attive nei settori dei pubblici appalti, trasporti, turistico-alberghiero e finanziario». Un uomo ricco e potente, con amicizie e protezioni che dalla politica si estendono fino alla Curia e al Palazzo di Giustizia.

Mettersi contro un colosso di queste dimensioni, per il sindaco di Palermo, equivale a un suicidio. È impossibile che Insalaco non se ne renda conto. E che non sappia che ogni suo gesto sarà pesato sulla bilancia storta della calunnia Il socialista Gaspare Saladino era in quegli anni un membro della direzione del suo partito. La sua sede di lavoro si trovava a Roma, in via del Corso; tornava in Sicilia per i fine settimana.

Racconta: «Con Insalaco ci incontravamo a volte in aeroporto, per caso. Aleggiava intorno al suo nome una certa ambiguità. Quando bloccò i pagamenti a Cassina, gli assessori socialisti della giunta vennero a dirmelo. Era un momento un po’ drammatico. C’era il dubbio che fosse per ricattare...» Nel novembre del 2013 una sentenza della Corte d’Appello di Palermo condannerà la Lesca-Farsura, da tre anni dichiarata fallita, a risarcire al Comune di Palermo circa centotrenta milioni di euro (in vecchie lire, poco più di duecentocinquanta miliardi), certificando «il modus operandi truffaldino dell’appaltatore». È un bollo d’infamia sui conti dell’impresa. Quando quella sentenza sarà pronunciata, nessuno ricorderà che il primo a bloccare i pagamenti, sospettando che i conti fossero truccati, fu Insalaco.

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