Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Giuseppe Insalaco non votò per Ciancimino, ma lo fece nel segreto dell’urna. Il giorno dell’elezione, solo due consiglieri democristiani rifiutarono pubblicamente di esprimersi a favore dello spavaldo corleonese. Si chiamavano Alberto Alessi e Salvatore Galante.

Qualche tempo dopo, a Galante incendieranno la macchina. Quanto ad Alessi, comincerà a ricevere telefonate di minaccia e si brucerà per dieci anni la carriera: denunciato ai probiviri della Dc, privato della tessera, escluso per due legislature dalle liste elettorali. Ma né le trame sotterranee di Salvo Lima né l’esplicito dissenso dei due consiglieri riuscirono a impedire che Ciancimino venisse eletto e conservasse la carica per 196 giorni, ben oltre la data delle dimissioni.

Un periodo breve, forse, se paragonato alla sua ambizione, ma abbastanza per mettere a punto due affari che appesteranno l’aria fino agli anni Ottanta. E che affari! I due maggiori appalti comunali: la manutenzione delle strade e delle fogne e la pubblica illuminazione. Il primo, il più ricco, era da anni monopolio di un imprenditore di origini comasche, Arturo Cassina, arrivato a Palermo negli anni del fascismo e che in città aveva trovato la sua fortuna. L’appalto per l’illuminazione pubblica era invece appannaggio della Icem di Roberto Parisi.

Quattordici anni dopo, quando entrambi gli appalti andranno a scadenza, la dura contesa scatenata dai vecchi padroni, decisi a non lasciarsi mandar via, costerà la poltrona a tre sindaci, silurati l’uno dopo l’altro. Il terzo sarà Giuseppe Insalaco. L’ostinazione di Ciancimino nel rivendicare la carica di sindaco, sfidando l’opinione pubblica nazionale e perfino il suo stesso partito, venne attribuita a cialtronaggine.

La tracotanza del personaggio era così esplicita, così spudorata da far apparire ragionevole l’idea che quella pretesa fosse dovuta a pura ambizione o a un capriccio. Più saggio sarebbe stato seguire il precetto che Giovanni Falcone mutuò dagli americani, indicandolo come la stella polare nelle indagini sulla mafia: «Follow the money». E solo a voler seguire la pista del denaro, l’ambizione dello spavaldo corleonese rivela un suo robusto fondo di realismo. Ciancimino ha alternato, o mescolato, affari e politica fin da quando, a ventisei anni, ottenne la concessione del trasporto dei carri ferroviari nella disastrata Palermo del dopoguerra.

Era allora lo spiantato figlio di un barbiere di Corleone. Diventò il prototipo di un modello destinato a un largo seguito nell’Italia repubblicana: il politico che usa gli affari per fare politica e la politica per fare affari, senza mai venir meno alla convinzione che il fine ultimo della politica siano gli affari.

Il ministro Mattarella

È noto che la fortuna del figlio del barbiere cominciò, appunto, con la concessione del trasporto dei carri. Ed è noto che, a garantirgliela, fu il sottosegretario ai Trasporti Bernardo Mattarella. Ma a Ciancimino, la benevolenza di Mattarella non sarebbe bastata se la Questura non gli avesse dato una mano a ottenere il suo primo, decisivo appalto, certificandolo laureato in Ingegneria e assicurando che fosse più che benestante, capace di poter spendere, a prezzi del 1950, sedici milioni di lire per acquistare le attrezzature necessarie al trasporto dei carri ferroviari.

Erano due menzogne in un colpo solo. E lo slancio con cui la Questura fornì notizie false a sostegno delle ambizioni dello spiantato corleonese avrebbe bisogno di una spiegazione. Sarà un caso, ma il ministro dell’Interno, in quel 1950 in cui la Questura di Palermo si mostrava così attenta alla sorte di Ciancimino, era un altro siciliano, Mario Scelba.

E viene da domandarsi quali benemerenze il giovane corleonese potesse vantare con la polizia. Un piccolo, possibile indizio appare in una relazione su mafia e politica presentata al Parlamento nel maggio 1993 dal deputato Alfredo Galasso, che accredita Ciancimino come interprete, a Corleone, per il tenente colonnello Charles Poletti, l’ufficiale italoamericano che fu governatore della Sicilia per gli affari civili dopo lo sbarco degli Alleati nel luglio 1943.

Furono quei contatti a spianare la carriera del giovane corleonese? Vent’anni dopo aver fatto, letteralmente, carte false per consentire a Ciancimino di farsi una posizione, nel marzo 1970 la Questura di Palermo gli ritira ogni credito: mette nero su bianco che Ciancimino è sospettato di collusione con soggetti mafiosi, che si è arricchito con molta rapidità ed è imputato di interesse privato in atti d’ufficio.

Per effetto di quelle informazioni, don Vito perde l’appalto che gli aveva consentito di diventare ricco. Quando questo accade, c’è ancora una volta un siciliano alla guida del ministero degli Interni, ed è Franco Restivo, mentre nella Questura di Palermo si muove con gran disinvoltura il giovane Giuseppe Insalaco.

C’è il desiderio di vendicarsi di quello smacco nell’ostinazione con cui Ciancimino pretende di farsi eleggere sindaco? Oppure lo guida il bisogno di trovare nuove fonti di guadagno? È un fatto che, conquistata l’elezione alla guida del Comune, Ciancimino mette in cantiere nuovi affari.

Gli appalti per il conte Cassina

Il 30 dicembre 1970, nonostante abbia dovuto annunciare le dimissioni, riunisce la giunta e fa approvare due provvedimenti. Il primo riconosce ad Arturo Cassina «maggiori oneri di manutenzione» per 3 miliardi, 433 milioni, 762 mila 645 lire. Una cifra enorme: in moneta corrente più di 31 milioni di euro.

La seconda delibera che don Vito fa approvare alla sua giunta è un «atto di sottomissione» – e mai termine burocratico fu più azzeccato – a favore dell’impresa d’illuminazione pubblica: si trattava di modificare il sistema di calcolo della revisione prezzi. Bastarono quattro anni ai funzionari del Municipio per accorgersi che, con i conteggi eseguiti secondo il nuovo metodo, la Icem incassava il 131 per cento dei costi sostenuti, perché il meccanismo escogitato da Ciancimino consentiva all’impresa di farsi pagare due volte le spese per le lampade.

Vent’anni dopo saranno i giudici del Tribunale a scrivere in una sentenza che l’«atto di sottomissione» del 1970 aveva prodotto per il Comune «disastrose conseguenze economiche». Quando i nodi verranno al pettine, sindaci e funzionari si giustificheranno dicendo che c’erano stati errori. Ma quegli errori – annoteranno i giudici – «stranamente» hanno avvantaggiato sempre l’impresa, mai il Comune. E non faticheranno a trovarne il bandolo: azionista occulto della Icem è un democristiano legato a filo doppio a Ciancimino, Giovanni Matta. Nei giorni in cui don Vito siede alla guida del Comune, il 17 novembre 1970, sette democristiani spediscono a Oscar Luigi Scalfaro, che a Roma dirige l’organizzazione del partito, una denuncia di una durezza impressionante.

I sette scrivono che «nella Dc palermitana non si fa politica», le tessere sono false, non c’è democrazia, ci sono solo commissari, il tesseramento fasullo è l’occasione per grosse operazioni finanziarie. Chiedono «pulizia». È un attacco neppure troppo segreto a Ciancimino, che per sedici anni è stato commissario della Dc. La lettera è una serrata requisitoria contro la sua gestione. Verrà ignorata.

Quindici anni dopo l’invio di quella denuncia, dei sette firmatari, uno, Michele Reina, sarà morto ammazzato e un altro, Rosario Nicoletti, morto suicida – e fa già un po’ impressione. Fa ancora più impressione sapere che un altro dei sette, Ferdinando Brandaleone – secondo la testimonianza di Gino Pennino, mafioso e democristiano – era un uomo d’onore. Il che situa la doppia militanza nella mafia e nell’antimafia molto lontano nel tempo, molto più lontano di quanto le cronache di questi anni siano disposte a riconoscere.

Pur con le sue firme ambigue, quella denuncia rivela una verità che troppo spesso passa sotto silenzio: che non fu solo l’omertà dei siciliani a favorire la mafia. Ci fu quanto meno una complicità più alta, il silenzio romano, l’inerzia di chi poteva intervenire e non lo fece. Palermo, la Sicilia, andavano consegnate agli assassini.

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