Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Il più misterioso tra i gesti di Insalaco risale a un pomeriggio di febbraio del 1981. È l’incontro con un famoso giornalista, Corrado Stajano, arrivato a Palermo col progetto di girare un documentario per la Rai sul risanamento del centro storico.

Stajano è un giornalista del Nord, ha fama di uomo di sinistra. Insalaco, che non lo conosce, briga per incontrarlo ma non gli chiede direttamente un appuntamento – non è questo lo stile democristiano né tanto meno palermitano.

Gli fa sapere, piuttosto, che vorrebbe parlargli. Stajano si informa. Non sa nulla di quel democristiano che insiste per vederlo. Il ritratto che gliene fanno è pieno d’ombra. L’uomo che vuole parlargli, gli dicono, «non aveva una buona reputazione»; come segretario di Restivo, «si diceva possedesse molte carte segrete».

Gli riferiscono un’opaca biografia politica: «Nell’orbita di Fanfani e di Gioia, nemico giurato di Vito Ciancimino, era uno che conosceva i meandri più oscuri del suo partito e conosceva anche i misteri dei rapporti tra istituzioni, potentati economici e mafia». È un uomo che appartiene alla «zona grigia, la terra di nessuno, o di molti, che sta tra la mafia e la società onesta».

L’incontro all’Hotel delle Palme

Sembra un personaggio partorito dalla fantasia di un Le Carré mediterraneo. Nessuna sorpresa che Stajano, incuriosito, accetti di incontrarlo. Per precauzione gli fissa un appuntamento in campo aperto: al bar del Grand Hôtel et des Palmes, tra gli stucchi e gli specchi dell’albergo più fascinoso della città.

Anni di frequentazioni siciliane hanno insegnato a Stajano che «a Palermo non bisogna mai nascondersi. E se si viene a conoscere qualche notizia rischiosa, non bisogna tenerla per sé, ma riferirla subito a qualcuno». Raccomanda alla troupe Rai di tener d’occhio sia lui che il suo interlocutore – come se, invece che a un assessore, avesse dato appuntamento a un killer. L’incontro durerà più di un’ora. Insalaco lo trasformerà in un monologo parlando sempre e solo lui, badando che il giornalista prenda diligente nota di ogni sua parola. Ma se davvero si aspettava di veder stampato quel diluvio di analisi, informazioni e considerazioni, resterà deluso.

Stajano aspetterà dodici anni per rendere pubblico ciò che ascoltò. Lo farà in un libro pubblicato nei giorni in cui la Prima Repubblica si sfalda e muore e Insalaco è ormai sepolto e dimenticato. Descriverà senza simpatia l’uomo «attento come un barracuda a quel che gli si muove intorno» che gli squaderna davanti «una mappa dei poteri mafiosi». Sfotterà le ingenuità del personaggio, certe ricercatezze impacciate che denunciano in lui il provinciale, il politico di seconda fila che vuole far colpo sulla grande firma.

Ma ciò che Insalaco dice è tutt’altro che banale – e lo prova il fatto che per dodici anni Stajano abbia conservato gli appunti. È un documento eloquente del genere di cose che quello strano democristiano avrebbe potuto rivelare su mafia e politica se non lo avessero ammazzato: neppure nelle testimonianze rese alla magistratura – almeno, per la parte che è stata resa nota – sarà mai così esplicito. Il monologo parte da una constatazione: «Sulla scena è tornato l’avvocato Vito Guarrasi, eminenza grigia di cui si sente parlare dai tempi dell’armistizio dell’8 settembre 1943».

Guarrasi è, per antonomasia, l’uomo dei misteri: evocato per ogni intrigo palermitano, ma come una presenza sfuggente, inafferrabile. È un avvocato civilista, esperto in Diritto societario; i suoi clienti sono i padroni dell’economia siciliana e non solo: dall’Eni di Enrico Mattei ai proprietari delle miniere, dai finanzieri esattori Salvo al signore degli appalti Cassina, Guarrasi è il consulente più ascoltato dei potenti.

La scena è quella di una città dove, secondo Insalaco, «sono in cantiere progetti speciali per 2500 miliardi di lire e lo scontro, come è sempre successo a Palermo, è sugli appalti».

En passant, l’assessore butta lì una chiave inedita sull’assassinio Mattarella: «La Regione Siciliana è in grado di aprire sportelli bancari e Mattarella, presidente del governo regionale, si era opposto all’apertura di una banca dei Salvo e questo gli ha segnato la vita, gliel’ha tolta, anzi». Ipotesi mai affacciata in alcuna indagine giudiziaria.

Nel dubbio che Stajano non sappia chi sono i cugini Nino e Ignazio Salvo, Insalaco gli illustra «la forza economica degli esattori di Salemi, dall’agricoltura alle costruzioni, dai terreni all’imbottigliamento dei vini, oltre alle famose esattorie per le quali lo Stato italiano ha concesso loro di prelevare sulle somme riscosse un aggio del 10 per cento, mentre la media nazionale è del 3,3 per cento».

La mafia e le amicizie a Roma

La parte più sorprendente di quell’alluvione di parole è la brutalità con cui il giovane democristiano delinea le relazioni tra mafiosi e politici. Riferisce Stajano: «Il capomafia Stefano Bontate, mi dice, ha un’assoluta dipendenza e subalternità da Lima. Michele Greco da Gioia. Io lo guardo perplesso.

Non arrivava alcuna voce, allora, dall’interno della zona grigia e tantomeno dalla mafia». E poi, il colpo di teatro: «Giuseppe Insalaco si guarda intorno, anche all’indietro, verso il bancone del bar e per la prima volta abbassa la voce. Sta per rivelarmi l’organigramma della mafia, la piramide.

Sopra tutto, mi racconta, c’è a Roma Giulio Andreotti. Franco Evangelisti fa da tramite tra il presidente e Salvo Lima [...] Lima fonda il suo potere sui cugini Salvo. Sotto ci sono politici minori e poi i capifamiglia, i boss, i soldati, i gregari». Il resto del discorso è una carrellata sul potere palermitano. Così Stajano lo riassume: «Insalaco, nel bar dell’albergo [...] parla di nuovo di quei 2500 miliardi che non vengono spesi perché manca l’accordo tra classe politica e mafia, parla di come è articolato il potere politico locale: Giovanni Gioia e Salvo Lima addetti alle grandi intese romane, Vito Ciancimino addetto alle operazioni pratiche, Rosario Nicoletti agli accordi assembleari. Parla delle responsabilità di Lima nella morte di Michele Reina, delle responsabilità dei Salvo nella morte di Vito Lipari, uomini della Dc, parla delle modalità di distribuzione del “bottino”, come lui lo chiama».

Prima di andarsene, il loquace assessore affida al giornalista una frase che, col senno di poi, suona come una micidiale premonizione: «Si sa che lo sgarro si paga col piombo». Quella frase pronunciata sulla porta – il luogo ultimo delle confidenze – è il sigillo di mistero sull’incontro.

Perché un democristiano di destra, un uomo spregiudicato e furbo, sussurra informazioni così delicate a un giornalista del quale non può non indovinare la diffidenza, forse perfino l’avversione? Insalaco non è un ingenuo, mostra di sapere che a Palermo la politica ha una pistola puntata alla tempia. Perché si espone, e con un giornalista, che potrebbe riferire le sue incaute confidenze alla persona sbagliata?

Quando Insalaco chiede udienza a Stajano, la Dc ha già cominciato a contare i suoi lutti. È morto ammazzato Michele Reina. È morto ammazzato Piersanti Mattarella. È morto ammazzato il sindaco Dc di Castelvetrano, Vito Lipari, un protetto dei Salvo. Il «piombo» è una minaccia reale, non una metafora.

Perché rischiare? A Stajano resta l’impressione di «un uomo ossessionato da qualcosa, non solo dal rovello della carriera politica e dal potere». E il dubbio che cercasse «un’impossibile liberazione». Più ancora che il contenuto del colloquio, è il momento che Insalaco sceglie a rendere misterioso quel torrente di confidenze.

Perché, nel febbraio del 1981, tutti i nomi pronunciati tra le tende e gli stucchi dell’Hotel delle Palme sono pesanti, e potenti.

Primo fra tutti, quello di Stefano Bontate, che non sa di camminare con la morte addosso ed è ancora il «principe di Villagrazia», il più giovane e invidiato esponente della commissione che governa Cosa Nostra. Morirà due mesi dopo, il 23 aprile, nel giorno del suo compleanno, tradito dai suoi guardaspalle, che si sono alleati con lo schieramento corleonese.

E con quell’assassinio prenderà l’avvio la guerra di mafia, condotta da Totò Riina per impadronirsi del governo di Cosa Nostra. Michele Greco è un boss di prima grandezza ma bisognerà aspettare almeno un anno per trovare il suo nome in un rapporto di polizia.

Il poliziotto che lo scriverà, Ninni Cassarà, finirà mitragliato. Vito Guarrasi, con i suoi capelli candidi e i penetranti occhi azzurri, è un intoccabile del potere palermitano. E i cugini Nino e Ignazio Salvo sono una potenza finanziaria che ancora nessuno ha il coraggio di sfidare. Nella Dc, il loro partito – e il partito di Insalaco – possono costruire e distruggere carriere politiche.

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