Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania. Nel 2003 la Cassazione condanna il boss Nitto Santapaola all’ergastolo perché ritenuto il mandante dell’omicidio. Mentre Aldo Ercolano e Maurizio Avola (reo confesso) sono stati condannati come i killer dell’omicidio.

Innanzi tutto è stato accertato che Benedetto Santapaola, seppure fosse latitante, continuava ad essere al centro della vita associativa ed organizzativa della famiglia catanese di cosa nostra, ed in particolare per quanto riguardava per così dire gli atti di straordinaria amministrazione, per come è stato costantemente verificato in numerosi episodi del processo: d’altra parte egli trascorreva la latitanza in località facilmente raggiungibili da Catania, per cui agevolmente e celermente gli affiliati maggiormente vicini al loro capo supremo potevano raccordarsi con lo stesso, allorché trattavasi di assumere decisioni di un certo rilievo per la vita associativa.

Si pensi alla visita che Avola fece a Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto il 27/2/1993 al fine di informarlo degli sviluppi connessi alla attuazione del piano di pulizia dopo la uccisione di Pinuccio Di Leo ovvero alle visite fattegli a Mascalucia a casa di Grasso “delle Bombole” per discutere in ordine alle vicende Standa e Sigros.

Nel caso in esame si trattava di assumere una iniziativa eclatante per stroncare quella che era divenuta una denuncia insopportabile, anche perché cointeressati alla repressione di detta denuncia erano niente meno che i cavalieri del lavoro, con i quali la famiglia catanese di cosa nostra aveva stipulato il contratto di protezione, di cui è cenno nella parte relativa alla trattazione del novente dell’omicidio di Giuseppe Fava.

Non c’è dubbio quindi che occorreva il raccordo con il capo ed anzi, dalle dichiarazioni di Pattarino e della Amato, si deduce che fu proprio Santapaola che nella fattispecie esigeva il contatto con la sua organizzazione, avendo necessità assoluta di fare pervenire a quest’ultima l’imput omicidiario, che nel suo animo si era sempre più radicato nei confronti del Fava alla lettura della rivista “I Siciliani”, alla quale Santapaola sempre attendeva (e che peraltro affondava le sue origini remote nella vicenda del Giornale del Sud), dato che il giornalista sistematicamente e vibratamente non faceva altro che denunciare all’opinione pubblica l’intreccio mafia politica affari.

Sintomatici sono all’uopo alcuni dati emergenti dal processo, e cioè, da un canto, l’abitudine acquisita da Benedetto Santapaola (riferita da Pattarino) per cui egli segnava le pagine della rivista “I Siciliani” contenenti le censure più gravi ed i passi più salienti da mostrare agli affiliati che andavano a trovarlo, al fine di dimostrare documentalmente a costoro il fatto che gli articoli di Fava erano divenuti tanto devastanti per la famiglia da imporre una repressione immediata, irreversibile e radicale e, dall’altro canto, al fine di supportare documentalmente la espressione spesso ripetuta a coloro i quali andavano a trovarlo a Siracusa (“ma non vedete cosa scrive Fava?”), la quale al contempo suonava da accorato grido di allarme, da ordine categorico ed irrevocabile di reprimere la denuncia portata avanti da Fava ed infine da grave e violento rimprovero per la organizzazione che remorava ingiustificatamente nella attuazione materiale della repressione.

Al fine di potere evidenziare il sommo interesse che nella specie aveva Santapaola a stroncare quella denuncia che emergeva dagli articoli di Fava pubblicati sulla stampa, va rilevato che Santapaola era soggetto di per se stesso estremamente attento a ciò che sulla stampa veniva pubblicato sul conto suo e della sua organizzazione: all’uopo va ricordato l’intervento censorio che era stato praticato sul Giornale del Sud attraverso l’inserimento di un legale quale “garante” della tutela del buon nome dei cavalieri del lavoro e di Benedetto Santapaola ed anche in tempi ordinari l’imputato mostrava di essere molto attento in ordine a quanto diceva la stampa sul suo conto (per come si deduce dalle risultanze della trascrizione della intercettazione ambientale fatta a Barcellona, dalla quale emerge che l’interlocutore di Santapaola diceva a quest’ultimo: «Oggi sono tre giorni che non si parla di lei».

Il ruolo di Aldo Ercolano

In questa situazione preme alla Corte evidenziare quello che appare essere il ruolo fondamentale svolto nella vicenda da Aldo Ercolano, quello cioè di avere assicurato il tramite necessario ed indispensabile tra Benedetto Santapaola e la sua organizzazione, al fine di consentire a Santapaola di potere veicolare il proprio messaggio di morte alla consorteria.

In altri termini va notato che, avendo Santapaola deciso di uccidere Fava e non potendo egli direttamente comunicare ciò alla organizzazione, trovandosi in quel momento latitante per sottrarsi ai provvedimenti restrittivi emessi a seguito della uccisione del generale Dalla Chiesa, vi era la necessità assoluta che vi fosse qualcuno che facesse da portavoce ufficiale della volontà del capo supremo nei confronti della organizzazione e costui fu dal Santapaola scelto nella persona del nipote Aldo Ercolano.

Trattasi di scelta non affatto casuale, ma che trova il suo fondamento in motivazioni sottili e sofisticate.

Occorreva innanzi tutto che il soggetto che facesse da portavoce ufficiale riscuotesse la massima ed incondizionata fiducia da parte di Santapaola.

Ed, infatti, costui acquisiva, così facendo, la conoscenza del luogo in cui Santapaola trascorreva la sua latitanza, con tutti i gravissimi rischi conseguenti facilmente ipotizzabili, e tale conoscenza era certo prerogativa di pochissimi eletti, se è vero che proprio nel processo de quo è risultato che Santo Battaglia, dopo avere “spostato lo zio” a Barcellona in occasione della collaborazione di Samperi, ritenne di non fare presente tale circostanza neppure a Natale Di Raimondo, che aveva ceduto al Battaglia financo la gestione della carta degli stipendi ed era peraltro personaggio di grande spessore all’interno della famiglia e capo del gruppo di Monte Po; ed inoltre il portavoce suindicato veniva implicitamente abilitato a compartecipare all’attività organizzativa dell’omicidio in questione ed un ruolo siffatto (data la importanza strategica dell’omicidio programmato anche in considerazione della caratura della vittima) non poteva non essere attribuito ad un personaggio nel quale Santapaola riponeva la massima fiducia.

Parimenti era assolutamente necessario che il portavoce ufficiale designato potesse validamente presentarsi agli affiliati in tale veste ed esprimere alla organizzazione niente di meno che la volontà del capo supremo, rendendosi al contempo credibile all’esterno, tanto più ove si consideri che si trattava di farsi portavoce di un mandato omicidiario che investiva un personaggio di spicco nella vita pubblica catanese, in deroga peraltro ad una precisa strategia che Santapaola aveva con puntiglio e coerenza massima cercato di perseguire, e cioè quella di evitare di colpire personaggi pubblici e delle istituzioni (cui nel tempo fu derogato solo nel caso della uccisione dell’ispettore Lizzio).

Al fine di soddisfare tali variegate esigenze, la scelta di Santapaola cadde su Aldo Ercolano, che quindi divenne nella vicenda in esame il portavoce ufficiale di Santapaola presso la consorteria.

Osserva la Corte che alla base della scelta suddetta vi fu la necessità, avvertita da Santapaola, di avvalersi dell’opera di un parente stretto, il quale appunto sulla base del vincolo di sangue (il quale, nell’ambito delle associazioni mafiose in genere e della famiglia catanese di cosa nostra in particolare, è elemento della massima importanza) assicurasse la massima fiducia (soprattutto in funzione della esigenza di massima sicurezza avvertita dallo stesso Santapaola) e che al contempo si potesse presentare all’organizzazione per rappresentare validamente la volontà omicidiaria di Benedetto Santapaola e fosse dalla stessa creduto come legittimo portavoce del capo supremo.

In questa situazione, a fronte dei vantaggi rivenienti dal vincolo parentale, scarso rilievo aveva agli occhi di Santapaola il fatto che Ercolano fosse all’epoca un giovane di ventiquattro anni (peraltro già uomo di onore, sufficientemente accreditato nell’ambito della consorteria e destinato a fare una rapida e folgorante carriera, che l’avrebbe portato a rivestire la carica di vice rappresentante della famiglia), tenuto conto che la scelta si giustificava esclusivamente in funzione del vincolo di sangue ed avuto riguardo al fatto che in concreto trattavasi di incombenza cui non era affatto necessaria la prerogativa della esperienza, poiché Ercolano doveva solo riferire alla consorteria la volontà omicidiaria di Santapaola e cooptare nella organizzazione qualcuno degli elementi di maggior spicco della associazione, cui in sostanza delegare i relativi profili.

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