Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Bisogna partire dai luoghi: dal posto dove si è venuti al mondo. Lì si cominciano ad annodare i fili del destino. Il tempo. Il luogo. Dove e quando.

Giuseppe Insalaco nasce a San Giuseppe Jato il 12 ottobre 1941, domenica. Anno xix dell’era fascista, secondo anno di guerra. Quel giorno il Corriere della Sera annuncia trionfalmente in prima pagina: «Due armate sovietiche annientate».

Un trafiletto seminascosto informa che nel Mediterraneo, tra Sardegna e Sicilia, è stata avvistata una nave nemica: batteva bandiera inglese. Il padre, Eugenio, è un carabiniere, un uomo severo. Chiuderà la carriera con il grado di maresciallo.

La madre, Ernesta Crociata, aveva partorito i suoi primi due figli là dove l’Arma aveva chiamato suo marito: il primo al Nord, il secondo nella Sicilia orientale. Per dare alla luce il terzo, in tempo di guerra, aveva deciso di tornare al suo paese, ai piedi del monte Jato.

Situato a trenta chilometri da Palermo e a ventisette da Corleone, come al vertice di un ideale triangolo, San Giuseppe Jato è uno dei luoghi dove sono passati la luce e il buio del Novecento siciliano. Paese di lotte contadine e santuario di mafia.

È qui, nella borgata di Quarto Molino, che il 2 settembre 1943 il contadino Salvatore Giuliano si fa bandito, ammazzando un carabiniere che voleva sequestrargli un carico di grano di contrabbando. Ed è da San Giuseppe che, il primo maggio 1947, partono famiglie intere di contadini per andare a celebrare la Festa del lavoro a Portella della Ginestra. Hanno una buona ragione per festeggiare: in aprile, nelle prime elezioni regionali, socialisti e comunisti, uniti nel Blocco del Popolo, hanno vinto; si parla di riforma agraria, di terra ai contadini. Ma la festa finisce in tragedia: appostati sulle rocce tutt’intorno, i banditi di Giuliano mitragliano la folla.

È la prima strage dell’Italia repubblicana. «Una strage modello», scriverà il giudice Giuseppe Di Lello: destinata a fare da esempio alle stragi che seguiranno, impunite tutte, frutto di un «groviglio di collusioni tra politici, servizi deviati (anzi, orientati), criminali comuni, centri istituzionali».

In luoghi come San Giuseppe Jato, nel convulso dopoguerra, la mafia impara che, quando i regimi crollano e la politica cerca faticosamente un nuovo assetto, l’omicidio politico, la strage, sono strumenti per inserirsi nel gioco grande del potere.

E capisce che quel potere è pronto a ricompensare il delitto con l’impunità. È una lezione, uno schema di gioco che Cosa nostra replicherà in tutte le fasi di passaggio della storia della repubblica. Fino alle stragi degli anni Novanta.

Governare con la mafia

A Portella della Ginestra si decide che la politica, in Sicilia, bisogna scriverla con il sangue. Muoiono a decine nel dopoguerra i sindacalisti, i capilega, gli amministratori comunali – e sono comunisti e socialisti che si battono contro gli agrari e la mafia.

Ma muoiono anche i democristiani, e sono sindaci e segretari di sezione, assessori e attivisti. Solo che, spesso, i democristiani uccisi sono mafiosi. E che la Dc non abbia mai rivendicato il proprio tributo di vite umane nell’insanguinata Sicilia della metà del Novecento, molto dice dell’imbarazzo riguardo a quei morti – e della volontà di far finta di nulla. Delitti senza colpevoli.

Anche perché trovare traccia degli assassini e dei mandanti avrebbe significato rendere pubblico il potente insediamento della mafia nel seno del maggior partito di governo. Bisognerà che crolli il Muro di Berlino e che le macerie seppelliscano, con il comunismo, anche lo scudo crociato, perché i più onesti uomini di quel partito si decidano ad ammettere di aver stretto patti con il diavolo.

All’alba degli anni Duemila, Giuseppe Alessi, che fu tra i fondatori della Dc siciliana e divenne il primo presidente della Regione, confida al giornalista Francesco Merlo: «Dovevamo fermare il comunismo, a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell’immediato dopoguerra era meglio cogovernare con i mafiosi piuttosto che consegnare il paese ai comunisti di Stalin».

Cogovernare è una parola enorme. Scivolerà nell’Italia della Seconda Repubblica con la leggerezza di una piuma. Nel maggio 2012 l’Istituto Gramsci Siciliano ha pubblicato in volume alcuni atti dei processi sui delitti degli anni Quaranta e Cinquanta. Li aveva dissepolti dal silenzio degli archivi l’avvocato Salvo Riela.

C’è anche il nome di un giovane di San Giuseppe Jato in quelle pagine: un piccolo proprietario, Calogero Caiola, che il giorno della strage di Portella della Ginestra aveva incontrato – e probabilmente riconosciuto come suoi compaesani – un gruppo di assassini che tornavano a casa con la lupara in spalla e la mitragliatrice sottobraccio. Sfortunato incontro. Sei mesi dopo, Caiola fu assassinato.

Delitto d’onore, stabilì senza esitazioni l’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza per la Sicilia. Il morto – accusarono gli inquirenti – era «donnaiolo» e «pederasta attivo»: un mostro di perversione. La politica non c’entrava. Scrive l’avvocato Riela nella prefazione al volume: «È stato giustamente osservato che nel caos della Sicilia del dopoguerra, distinguere tra omicidi comuni e delitti politico mafiosi non era facile. Rimane il fatto, però, che il primo obiettivo che gli inquirenti perseguivano era quello di escludere il movente politico [... ] Le piste che si battevano per prime erano quelle della vendetta per ragioni personali o di interesse e quella che portava ad una presenza femminile [...] Inoltre – e questo è forse l’aspetto peggiore – si tentava di sminuire la figura della vittima, descrivendola nel migliore dei casi come un poveraccio, incapace di una militanza politica o di partito; in altri indicandolo come un poco di buono, dedito ad affari loschi e imprecisati che gli avevano attirato l’altrui vendetta. Si concludeva, quindi, che la politica non c’entrava nulla con il delitto».

Sembra paradossale ma, quarant’anni dopo, un identico schema sarà adottato per spiegare l’assassinio di Giuseppe Insalaco. Quel paese di nascita è un nodo fatale.

Giovanni Brusca e Angelo Siino, i compaesani

Di San Giuseppe Jato è il mafioso che pronuncerà su Insalaco i giudizi più sprezzanti. Il suo nome è Giovanni Brusca, in Cosa nostra lo avevano soprannominato “scannacristiani”, superfluo spiegare perché.

Erede di una dinastia di mafia che a San Giuseppe ha significato terrore e sudditanza, Brusca è il mafioso che, il 23 maggio 1992, a Capaci, preme il tasto del telecomando per far saltare in aria la macchina di Giovanni Falcone e uccide, con il magistrato, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.

Neppure quattro anni dopo, l’11 gennaio 1996, è ancora Brusca a ordinare di uccidere il canuzzo, il piccolo Giuseppe Di Matteo: sequestrato a undici anni, tenuto prigioniero per 779 giorni per convincere il padre, Santino Di Matteo, a ritrattare le sue rivelazioni ai magistrati sulla strage di Capaci. Di Insalaco, Giovanni Brusca parla con ostilità, addirittura con disprezzo.

Gli rimprovera di non aver reso a suo padre i favori che la famiglia gli aveva chiesto. Avrebbe dovuto farlo, secondo Brusca, se non altro perché, per essere nato a San Giuseppe, poteva considerarsi «un mezzo paesano».

Con Insalaco, Brusca avrebbe potuto dire d’aver condiviso anche la militanza di partito. Negli elenchi degli iscritti alla sezione della Democrazia cristiana di San Giuseppe Jato per l’anno 1978, Giovanni Brusca figura con la tessera numero 5554614 e con lui, con la tessera numero 5539398, compare il nonno, Emanuele, che in paese veniva evocato col soprannome ’a Muntagna.

Manca, in quell’elenco, il figlio di Emanuele e padre di Giovanni, Bernardo Brusca, storico alleato di Totò Riina: probabilmente perché nel 1978 era già latitante e includerlo tra gli iscritti alla Dc sarebbe sembrato di cattivo gusto.

Un altro compaesano, che apparirà con frequenza nella storia di Insalaco, è Angelo Siino. Nelle cronache su Cosa Nostra sarà indicato per anni come «il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina».

Dalla metà degli anni Ottanta ai primi Novanta fu il gran maestro degli appalti in Sicilia, in nome e per conto della cosca corleonese: l’incaricato d’affari che manovrava le offerte e trattava con le più grandi imprese nazionali e siciliane. Più giovane di Insalaco di tre anni, Siino ha conosciuto Cosa Nostra, per così dire, fin dalla culla: la famiglia della madre, i Celeste, dominava la mafia di San Cipirello, un paese attaccato a San Giuseppe Jato come la metà di una mela.

Il nonno, Giuseppe Celeste, fu ucciso nel 1921. Suo fratello Salvatore, lo zio di Angelo Siino, vegliò amorevolmente sull’educazione del nipote. Di Insalaco, Siino si è dichiarato «amico d’infanzia». Anche lui, come Brusca, una volta finito in carcere, constatata la fine della lunga dittatura di Riina, scelse di collaborare con la giustizia. E anche lui avrebbe potuto rivendicare la comune militanza di partito con Insalaco.

Consigliere comunale della Dc per due legislature, talmente spavaldo da votare, una volta, un sindaco comunista, una donna, offrendo il proprio voto come un gesto di galanteria, Siino frequentava a San Giuseppe lo stesso circolo delle Acli del quale, per cinque anni, Giuseppe Insalaco fu presidente.

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