Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Uno dei ricordi più disturbanti dei miei anni di cronista a L’Ora riguarda l’Ordine del Santo Sepolcro. Erano i primi mesi del 1983. Il direttore, Nicola Cattedra, mi aveva affidato un’inchiesta sul potere in Sicilia – ardua impresa, specialmente in quegli anni. Ero stata a Messina e a Catania. A Palermo andai a parlare anche con Giovanni Falcone. Lo trovai impegnato nel trasloco dall’ufficio dove fino a quel momento aveva lavorato, situato al piano terra di Palazzo di Giustizia, a un’area più protetta dell’edificio. La stanza aveva una grande vetrata sulla strada, a un passo dal mercato popolare di Porta Carini.

Erano gli anni del sangue e della furia: la guerra di mafia aveva seminato cadaveri e lupare bianche. I morti ammazzati si contavano a decine. Per tutto il tempo del colloquio Falcone non smise mai di andare avanti e indietro, spostando fascicoli e faldoni dalla scrivania agli armadi. E per tutto quel tempo io continuai a pensare che, da quella grande vetrata, chiunque avrebbe potuto sparargli nella schiena e continuai a domandarmi che Stato era questo, che lasciava i suoi uomini migliori con le spalle scoperte nella città mattatoio.

Domandai, dunque, a Falcone chi comandava a Palermo. La sua risposta fu ispida e breve: «Comandano i cavalieri, ma sul suo giornale lei questo non può scriverlo». Ricordo la fitta improvvisa di sorpresa, di indignazione. Vivevamo allora, noi giornalisti di quel piccolo, glorioso quotidiano, come in trincea, sentendoci schierati tra le forze del Bene nell’assedio del Male che dilagava. «I cavalieri?» vacillai. Non capivo. A Catania mi ero occupata dei cavalieri del lavoro, i Costanzo, i Rendo, i Graci, i potenti imprenditori che avevano costruito le loro fortune sugli appalti pubblici.

Nella sua ultima, celebre intervista con Giorgio Bocca, il generale Dalla Chiesa aveva indicato nei cavalieri di Catania i protagonisti di un nuovo accordo con la mafia. «I cavalieri del lavoro?» azzardai. Falcone sembrava spazientito: «Che c’entrano i cavalieri del lavoro?» Non sapevo che dire. Sbocciata dal nulla, mi si affacciò un’insperata intuizione: «I cavalieri del Santo Sepolcro, allora?» «Esatto» confermò. «Ma sul suo giornale non può scriverlo». Lo sfidai.

Mi consegnò una storia esemplare sul Cassina imprenditore: impegnato in una società con un parente dei Salvo, Ignazio Lo Presti, per costruire palazzine in quella borgata di Uditore che era allora controllata dal boss Salvatore Inzerillo, il «conte», come Cassina amava farsi chiamare, aveva liquidato Lo Presti non appena Inzerillo era stato assassinato e lo aveva sostituito con un nuovo socio. Il senso dell’operazione l’aveva chiarito Falcone stesso, nelle carte che mi consegnò: «In occasione dell’attuale guerra di mafia, si sono verificati mutamenti di amministratori in società del settore edilizio, che sono così passate sotto il controllo di membri delle “famiglie” vincenti». Al giornale condussi una dura, faticosa battaglia per raccontare quella storia. Riuscii a spuntare una formula esangue: scrissi che Lo Presti era alleato di «uno dei maggiori gruppi imprenditoriali di Palermo». Di Cassina, neanche il nome.

Due elenchi di cavalieri

Conservo, dei miei anni palermitani, due elenchi di cavalieri del Santo Sepolcro in Sicilia. Il primo, datato 1981, è un Annuario su cui figura il simbolo della confraternita, lo scudo con le cinque croci, e il perentorio motto «Dio lo vuole». Il secondo è un elenco dei cavalieri della sezione di Palermo che dà conto delle ammissioni fino al dicembre del 1983. Nell’uno e nell’altro appare l’élite della città: parlamentari e professionisti, alti burocrati del Comune e docenti universitari, medici e gioiellieri, banchieri, vescovi e industriali.

E una quantità di generali, colonnelli, questori, prefetti. Dal 1980 al 1983 Arturo Cassina sembra dedicarsi a un frenetico reclutamento nei ranghi dell’esercito, della Guardia di Finanza, dei carabinieri, della polizia, con qualche sortita nella magistratura. Nell’elenco del 1983 risultano in tutto trentacinque esponenti delle forze dell’ordine e della magistratura – e di quei trentacinque, ventuno sono stati ammessi all’Ordine negli ultimi tre anni. Gli anni della guerra di mafia. Gli anni dei missili a Comiso. Gli anni degli assassinii eccellenti.

Tra i cavalieri di vecchia e nuova investitura, ci sono pure due alti ufficiali dei carabinieri comparsi negli elenchi della P2: uno è il generale Giuseppe Siracusano, che ricevette le insegne di cavaliere del Santo Sepolcro il 21 giugno del 1982, quando già il suo nome era apparso negli elenchi di Gelli; l’altro risulta nell’Ordine fin dal maggio del 1961 ed è il colonnello Manlio Del Gaudio, che nel 1993 verrà condannato con l’accusa di aver depistato le indagini sull’ennesima strage italiana, l’eccidio di Peteano – tre carabinieri uccisi –, per coprire due estremisti di destra.

Il 3 ottobre 1984, nell’audizione davanti alla Commissione antimafia, un deputato comunista, Nino Mannino, domanda a Insalaco una sua «valutazione» sui cavalieri del Santo Sepolcro, la «strana organizzazione religiosa e massonica» cui appartiene Arturo Cassina. L’ex sindaco risponde: «È notorio a Palermo che si tratta di un’organizzazione religiosa alla quale aderiscono, su designazione, rappresentanti dell’apparato dello Stato, della finanza e dell’imprenditoria. Tale organizzazione ha carattere parareligioso; credo che abbia come assistente religioso il vescovo di Monreale. Altre notizie precise non so darvi». È la risposta più imbarazzata che dà in quella giornata

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