Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Nei primi anni Settanta, commentando i Pentagon Papers, monumentale rassegna dei documenti segreti del governo americano sulla guerra in Vietnam, la filosofa Hannah Arendt5annotò: «L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche, e le bugie sono sempre state considerate strumenti giustificabili negli affari politici».

A Palermo, in tema di mafia, l’arte di mentire in politica venne sollevata a vertici di assoluta eccellenza. Un esempio? Il 22 novembre 1981 il cardinale Pappalardo convoca una messa solenne in Cattedrale «per invocare dal Signore la pace per questa città pervasa dall’odio e dalla follia omicida». I giornali la battezzano «messa antimafia». Il cardinale respinge la definizione: la messa, dice, non è mai «anti», mai contro nessuno. Non è un modo per tirarsi indietro.

Nell’omelia il prelato non esita a scagliarsi contro «ladri delinquenti assassini disonesti e mafiosi di ogni risma». Alla messa è stato invitato il sindaco della città, Martellucci: tocca a lui aprire la celebrazione. E il sindaco prende la parola, perché non può rifiutarsi, non può dire di no al cardinale, ma si destreggia in ardite acrobazie pur di non pronunciare l’impronunciabile parola – e parla del «fenomeno delittuoso», e invoca «la presenza del male», e accusa «il fenomeno», e se la prende con «gruppi dediti al malfare», e poi ancora «il fenomeno» e «la criminalità» e «la fenomenologia delittuosa».

Mafia no; quelle cinque lettere, quelle due sillabe che Insalaco ha scandito con tanta naturalezza nel suo incontro con Stajano, non si possono pronunciare. E il sindaco non le pronuncia. È prudenza? È una forma di viltà? Martellucci è il sindaco che farà scandalo perché, dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa, negherà che il Comune abbia il dovere istituzionale di combattere la mafia. Ma sa bene di che cosa si tratta. Simona Mafai, che fu capogruppo comunista al Comune negli anni dal 1980 al 1985, lo ricorda mentre scorre l’elenco dei proprietari di pozzi privati che vendono l’acqua all’azienda municipalizzata dell’acquedotto: «Era venuta fuori una legge sull’esproprio di quei pozzi. E lui aveva tra le mani quest’elenco e mi disse: “Signora, questi sono nomi che fanno tremare”. Provai a replicare qualcosa, mi interruppe, disse: “Guardi che sono in pericolo più io di lei”». Tra i proprietari di pozzi che vendono l’acqua all’Amap ci sono anche i fratelli Michele e Salvatore Greco.

I Greco di Ciaculli

In Cosa Nostra i due fratelli si sono divisi i ruoli: Michele è il «papa», suo fratello Salvatore, detto Totò, è il «senatore». È l’uomo che tiene i rapporti con la politica e con le banche. Il collaboratore di giustizia Giuseppe Marchese sostiene che fosse massone e che i legami di loggia lo rendessero particolarmente potente. Sempre Marchese dice d’aver saputo da Leoluca Bagarella che, con suo fratello Michele, Salvatore il «senatore» riceveva alla Favarella «magistrati, carabinieri, poliziotti».

Anni dopo, ormai in galera, sarà lo stesso Michele Greco a fare l’elenco di marescialli, tenenti, capitani di carabinieri, e di qualche magistrato, che frequentavano la sua tenuta, per dimostrare d’essere stato uno specchiato cittadino, onorato e riverito dal potere costituito. Così come ammetterà d’aver sempre votato per u Signuruzzu, che è il nome con cui la devozione siciliana indica Gesù Cristo e, per estensione, il partito democristiano, che ha la croce nel simbolo.

Quanto a suo fratello, Salvatore Greco non si è limitato a votare. Negli anni Settanta è stato il segretario della sezione democristiana di Ciaculli. Indimenticabile la pennellata con cui il medico mafioso Gioacchino Pennino dipinge lo zelo di quel segretario: «Ho saputo che in quella sezione tutti venivano iscritti da Totò Greco, detto il senatore». Un solerte reclutatore per la Dc. Anche Pennino fu per due anni segretario della sezione di Ciaculli. Ricorda una sola riunione di partito: era stata convocata alla Favarella, nella tenuta dei Greco.

E ricorda la distribuzione delle deleghe per il congresso provinciale della Dc nel 1979: due toccarono a Pennino, che in quell’anno rappresentava Ciancimino, e tre alla corrente fanfaniana, quella del «senatore», appunto. Secondo Pennino, «Totò Greco le avrebbe poi cedute a Insalaco, di cui era un accanito sostenitore».

Nelle elezioni comunali del 1980, sostiene Pennino, il «senatore» Totò Greco si prodigò per sostenere Insalaco. Chi era quest’uomo che accettava l’appoggio elettorale dei Greco e sussurrava al giornalista del Nord le verità inconfessabili sui legami tra mafia e politica? E come bisogna interpretare quel lungo sfogo con Stajano? Era un’operazione di sabotaggio, la sua, contro il suo stesso partito? Un doppiogioco rischioso e ambiguo? La ribellione di Insalaco è il segno che la Dc come partito omnibus, un gran corpaccione capace di contenere la mafia e il suo contrario, non regge più.

Metto in fila i fatti, le date di quell’anno 1981. A marzo, a Firenze, in una perquisizione nella villa di Licio Gelli, saltano fuori le liste della P2: l’elenco comprende ministri e generali, parlamentari e capi dei servizi segreti. A maggio il governo di Arnaldo Forlani è costretto a dimettersi.

A giugno la Dc, per la prima volta nel dopoguerra, viene sgomberata da Palazzo Chigi: giura come presidente del Consiglio un repubblicano, Giovanni Spadolini. Due mesi dopo, in agosto, toccherà a lui annunciare che i missili della Nato saranno collocati a Comiso, in Sicilia.

Il presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, aveva provato già nel 1979, nel marasma del dopo Moro, ad affidare l’incarico di formare il governo a un non democristiano: aveva convocato prima un repubblicano, Ugo La Malfa, poi il socialista Bettino Craxi, ma il tentativo era fallito.

Arrivano i “Corleonesi”

Anni dopo, sull’onda dello scandalo P2, l’operazione riesce. È un colpo di maglio a un assetto di potere stabilito nel dopoguerra. Trentasei anni di ininterrotta permanenza a Palazzo Chigi da parte della Dc si interrompono di colpo. Ed ecco che a Palermo, in quegli stessi mesi, una feroce mattanza mette fuorigioco quella che i palermitani chiamano la mafia borghese, Bontate prima di tutto, al comando dal dopoguerra. Cambia la mappa del potere a Roma. Cambia la mappa della mafia in Sicilia.

Nuove cordate si insediano nei ministeri, negli apparati. E una nuova cosca arriva al comando di Cosa Nostra. È una coincidenza, d’accordo. Ma mette i brividi. Anche perché lo schieramento corleonese interviene con violenza nella politica. E contro chi disturba, usa il kalashnikov.

Nell’autunno del 1981 arriva in Sicilia, con l’incarico di segretario regionale del Pci, Pio La Torre, deciso a impegnarsi su due fronti: contro le cosche, per la confisca dei patrimoni mafiosi, e contro la base nucleare di Comiso. Non arriva all’estate: il 30 aprile 1982 La Torre e il giovane comunista che guida la sua macchina, Rosario Di Salvo, cadono in un agguato.

Neppure un mese prima, il 4 aprile, il segretario siciliano del Pci aveva marciato, a Comiso, alla testa di un’imponente manifestazione contro la base Nato. I cambi di potere non sono mai indolori. Con Spadolini a Palazzo Chigi, il generale Dalla Chiesa viene inviato a Palermo con l’incarico di prefetto.

Con il socialista Rino Formica al ministero delle Finanze, la Guardia di Finanza entra nelle esattorie dei Salvo: i militari chiedono carte, sequestrano documenti. È un inaudito cambio di stagione.

Non ci vorrà molto perché il potere disturbato manifesti la sua collera. Nel luglio del 1982 L’Espresso pubblica un’intervista esclusiva con Nino Salvo. L’esattore si presenta come vittima di una manovra orchestrata dal Pci e lancia il guanto della sfida al suo partito: «Alla Dc poniamo un problema di ordine generale: può ancora consentire le sistematiche persecuzioni nei confronti delle forze imprenditoriali che le sono più vicine?»

I ricordi del mafioso Pennino

Se c’è un uomo che può raccontare che cosa significa il controllo della mafia sulla politica in quei primi anni Ottanta, è Gioacchino Pennino, medico radiologo e politico democristiano.

Un minimo di biografia: Pennino nasce nel 1938, ha tre anni più di Insalaco, col quale si incontrava da ragazzo dai gesuiti di Casa Professa. Ha alle spalle una dinastia di mafia, che ha radici a Brancaccio, uno dei luoghi simbolo della mafia palermitana. Suo nonno era il capomafia del quartiere e capomafia è stato suo zio Gioacchino.

Nel 1994, quando Pennino avvierà una collaborazione con la giustizia, la Procura di Palermo celebrerà con enfasi l’evento: «Per la prima volta nella storia [...] si pentiva un uomo d’onore in grado di conoscere, per esperienza personale e diretta, la natura, le modalità e i processi di evoluzione dei rapporti tra Cosa Nostra e il mondo politico».

La carriera politica e professionale di Pennino, così come lui stesso l’ha ricostruita per i magistrati, è un esempio da manuale del potere che Cosa Nostra esercita nella società palermitana.

A ventitré anni si laurea in Medicina, poi si specializza in Igiene e in Radiologia. Ha venticinque anni quando apre un laboratorio d’analisi in via Roma, nel centro della città. Due anni dopo vince un concorso come medico dell’Inam, l’Istituto nazionale per l’assicurazione malattie, un colosso di quel sistema delle mutue che fu l’antenato del servizio sanitario nazionale.

Da collaboratore di giustizia, sarà lui stesso ad ammettere che l’aiuto di Cosa Nostra è stato determinante per vincere il concorso. E che quell’aiuto segnerà ogni passaggio della sua carriera, spianandogli la via verso il successo professionale. Sarà dunque un mafioso a procurargli una convenzione con la Coldiretti per la Medicina generica e un altro mafioso a fargli ottenere una convenzione per la Medicina specialistica. Pennino gioca anche la carta del sindacato: diventa segretario dei medici nella Cisl siciliana.

Dal 1965 al 1978 lavora all’Inam. Dovrà dimettersi perché, di promozione in promozione, è stato nominato ispettore sanitario per la provincia di Palermo e i suoi “coassociati” – ovvero i mafiosi – non possono tollerare un ispettore tra le loro file. Parallela alla carriera professionale, inaugura la scalata alla politica. Nel 1970 si iscrive alla Dc nella sezione di Ciaculli, quella controllata da Salvatore Greco.

Nel 1978 ne diventa il segretario; nel 1984, il commissario. Controlla almeno cinquemila voti. Alla fine degli anni Settanta, Cosa Nostra decide che è venuto il momento di farlo diventare uomo d’onore, ma con un’affiliazione riservata, perché solo in pochi sappiano della sua iniziazione. I medici sono riferimenti preziosi per la mafia: servono per curare i latitanti, per falsificare cartelle cliniche per i detenuti, per inventare patologie che attenuino il regime carcerario o favoriscano il ricovero in infermeria. Proprio la loro utilità suggerisce di ridurre a pochi, scelti uomini d’onore la conoscenza dell’affiliazione dei medici.

Come qualunque uomo d’onore, Pennino prende ordini dalla mafia; anche le sue scelte politiche sono decise da Cosa Nostra. Nel 1980 è il capo della cosca di Brancaccio, Giuseppe Di Maggio, a ordinargli di iscriversi nella corrente di Ciancimino, che in quella fase si professa andreottiano. Un anno dopo, quando don Vito si sgancia da Andreotti, Pennino vuole smarcarsi: un conto è riconoscersi nel divo Giulio, tutt’altro essere al traino di don Vito. Ed è allora che accade un episodio esemplare.

Il riottoso medico viene convocato a Bagheria per un misterioso appuntamento. Viene preso in consegna da diversi intermediari; Pennino passa dall’uno all’altro, infine condotto in un magazzino di agrumi. Lì trova ad aspettarlo il «ragioniere», Bernardo Provenzano. L’incontro è durissimo: Provenzano sottopone Pennino a una “aggressione”, lo investe di rimproveri; alla fine lo manda via con l’intimazione di stare zitto, cioè di non ribellarsi a Ciancimino. Pennino obbedisce.

Non può fare altro. Ha capito perfettamente la lezione: dietro Ciancimino, si erge il profilo di Provenzano, l’uomo che i corleonesi chiamano u tratturi, «il trattore», per significare l’impeto con cui travolge gli ostacoli. Ha capito, soprattutto, che è con Provenzano che bisogna trattare per decidere la propria collocazione negli schieramenti interni alla Dc.

Dopo il congresso democristiano di Agrigento, quando Ciancimino viene isolato da tutte le correnti, Pennino capisce che il vento è cambiato e decide di riprovare a separarsi da don Vito. Stavolta è lui stesso a preoccuparsi di chiedere il permesso a Provenzano.

Per ottenere un nuovo incontro con il «ragioniere» si rivolge a un killer, Giuseppe Greco, detto «Scarpa». L’intercessione del killer serve a Pennino per ottenere che Provenzano non abbia più l’atteggiamento «aggressivo e arrogante» che aveva manifestato due anni prima.

Più arrendevole, il capo corleonese gli dà il permesso di abbandonare la corrente cianciminiana. C’è solo un dettaglio da rispettare – ed è il killer a svelarglielo, accompagnandolo alla porta: Pennino non deve provare a convincere nessun altro a seguirlo. Il giorno dopo Pennino comunica a Ciancimino l’addio alla sua corrente. E quello diventa pallido e con un filo di voce gli domanda: «Con chi hai parlato?» «Con nessuno» mente Pennino.

L’omicidio Dalla Chiesa

Così, dunque, andavano le cose nella Dc allo sbocciare degli anni Ottanta. Ma nel racconto che della politica palermitana Insalaco ha fatto a Stajano, non c’è traccia di Provenzano. E neppure di Riina. E dire che, secondo Pennino, già allora Bernardo Provenzano «aveva grandissima influenza nella gestione della vita politica palermitana, della quale sembrava dirigere le sorti».

Di più: nella carrellata sui legami di mafia dei politici palermitani, Insalaco ha appena sfiorato Ciancimino, come se non sapesse che è in tale intimità con Riina e Provenzano da incontrarli nel castello sul mare del principe di San Vincenzo, a San Nicola l’Arena. E, con i capi corleonesi, Ciancimino è in tale confidenza da portare con sé agli appuntamenti perfino due dei suoi figli, ancora bambini.

Verrebbe da pensare che l’uomo che conosceva tanti segreti ne ignorasse altrettanti. È vero che la fotografia del potere palermitano che Insalaco scatta, la foto di famiglia di Dc e mafiosi, risale a un tempo precedente allo scatenarsi della guerra.

Ma è giusto sottolineare un dettaglio: tra la descrizione dei rapporti tra la mafia e la politica fatta da Pennino e quella di Insalaco, c’è una differenza interessante. Secondo Pennino, Provenzano comanda e la politica obbedisce. Nella visione di Insalaco, è Bontate a subire il condizionamento di Lima, non viceversa. Quel medesimo Bontate che, secondo Francesco Marino Mannoia, ha sibilato a Giulio Andreotti, dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella: «In Sicilia comandiamo noi». Se Pennino ha ragione, è più facile capire l’ispida accoglienza che il Comune di Palermo avrebbe riservato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nei suoi cento giorni da prefetto, il vuoto che gli si scavò intorno.

Unica eccezione, tra i democristiani, Insalaco. Alla Commissione antimafia, nell’audizione del 3 ottobre 1984, racconterà di aver incontrato più di una volta il generale: «Sul piano personale, ho ricevuto una visita del generale Dalla Chiesa, da Prefetto, mentre ero assessore all’Igiene e sanità. Proprio in quell’occasione egli venne in una zona – l’assessorato che dirigevo era ubicato nell’area di San Lorenzo – dove è risaputo che vi è una grossa presenza mafiosa, perché voleva ad ogni costo che proprio in quella zona si istituisse un centro per la lotta alle tossicodipendenze. Ma quello fu un rapporto personale: tanto è vero che ci siamo incontrati più volte per altre situazioni, che riguardavano anche l’amministrazione comunale».

Quell’«anche» è una porta aperta, un invito ad approfondire le «altre situazioni» in cui il prefetto e il politico si sono incontrati. Tra i parlamentari dell’Antimafia, nessuno lo raccoglierà. Nel settembre 1982 il «figlio dello sbirro» dà un altro piccolo segnale di insubordinazione.

Lo fa distinguendosi dalle proteste sdegnate dei democristiani dopo l’assassinio Dalla Chiesa. Quando il figlio del generale, Nando Dalla Chiesa, indica nella Dc siciliana i mandanti del delitto e fa i nomi di Lima, Nicoletti, Martellucci e D’Acquisto, Insalaco dichiara a L’Ora di riconoscere qualche ragione a chi attacca il suo partito. Ha annotato Saverio Lodato: «Forse fu l’unico che non si unì al coro dell’“onore dc offeso”».

La dichiarazione di Insalaco suona come una sorta di prudente appello a una conversione dell’intera Dc: «Si può anche avere il coraggio di dire: “sì, abbiamo sbagliato, c’è qualcosa che non va”. Il problema del resto non è del partito, ma di alcuni tra gli uomini che lo gestiscono. Bisogna avere il coraggio di spezzare questo coagulo di debolezze».

Passano pochi mesi, cade la giunta, se ne insedia un’altra e, per la prima volta in tredici anni, Insalaco non è chiamato a fare l’assessore. È la vendetta contro quel commento fuori dal coro? La punizione per aver rotto le righe sul generale Dalla Chiesa? Il 26 giugno 1983 si vota per il nuovo Parlamento. La Dc paga il conto: un conto doppio, che riguarda sia le compromissioni con la mafia che il tentativo di staccarsene.

Nella Sicilia occidentale perde più del 5 per cento. Cinquantamila voti si dissolvono. E i quattro quinti di quei voti, quarantamila in tutto, spariscono a Palermo, dove l’astina elettorale, tutta in caduta, si ferma a meno 7 per cento. È un disastro. Con un’eccezione: Corleone, la patria di Vito Ciancimino. Nel paese simbolo della mafia, la Dc segna un più 6 per cento. Chi vuol capire, capisca.

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