Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Nei primi mesi del 1987, Giuseppe Insalaco entra nelle liste di Cosa Nostra come un uomo da uccidere. Da un anno ha lasciato ogni incarico pubblico. Non è stato lui ad abbandonare la politica, ma la politica ad abbandonare lui. Il primo maggio 1986 l’Assemblea regionale si è sciolta per fine legislatura; si va a nuove elezioni, nessuno gli offre una candidatura.

Nei venti mesi che gli restano da vivere coltiverà propositi di rivincita, si esalterà nella certezza di poter tornare in gioco, mediterà vendette e resurrezioni, ma inutilmente. Dovrà trovare altri modi per tirare avanti, lui che è sempre vissuto di politica. Prende in affitto dalle suore un mezzanino in via Papireto, all’angolo del mercato delle pulci, dietro la Cattedrale. Avvia un commercio di oggetti d’antiquariato.

A Roma va a trovare Nicola Cattedra, che ha lasciato la direzione de L’Ora, gli domanda consigli sugli indirizzi di antiquari a Londra: «Ho un negozietto dove vendo piccole cose antiche, tabacchiere d’argento che a Palermo sono molto ricercate, vecchi Rolex, gemelli e spille liberty. Roba piccola, mi serve per campare...».

Si arrangia come può. Intorno a lui, tutto è cambiato. De Mita ha affidato la Dc palermitana alla tranquilla fermezza di Sergio Mattarella ed è riuscito a insediare al Comune il suo pupillo Leoluca Orlando alla guida di un rissoso pentapartito. Orlando è l’asso che la Dc di De Mita vuole giocare sulla scena nazionale per riguadagnare i consensi perduti. E il sindaco si rivela un ciclone. La sua fama come campione dell’antimafia oscura di colpo quella di tutti i suoi predecessori.

Compie gesti impensabili per il passato: si presenta al maxiprocesso per chiedere che il Comune possa costituirsi parte civile contro Cosa Nostra, invita in Municipio i sindaci di 57 città italiane per far sentire ai palermitani la solidarietà del paese, dichiara che Palermo, da capitale della mafia, è diventata anche la capitale dell’antimafia. E quando Leonardo Sciascia lo prende di mira, disegnando la sua silhouette in un articolo sul Corriere della Sera contro i «professionisti dell’antimafia», si scatena un putiferio: ma contro Sciascia. Cosa Nostra ha messo a tacere le pistole.

Per tutti i lunghi mesi del maxiprocesso osserverà una tregua. L’enorme emozione che ha accompagnato l’apertura di quel dibattimento si è consumata in fretta. Nel febbraio 1986, quando l’aula bunker costruita a tempo di record nel perimetro dell’Ucciardone ha aperto le sue gabbie a centinaia di mafiosi, un famoso giornalista, Giampaolo Pansa, l’ha paragonata a un’astronave. Il processone fa la fine del marziano a Roma nel celebre racconto di Flaiano: all’inizio, entusiasmo alle stelle; poi indifferenza e noia. Se a Palermo non si spara, per l’opinione pubblica lo spettacolo è finito. Nel silenzio delle armi, Cosa Nostra cerca nuove alleanze: in politica, negli affari, nel vischioso mondo dei pubblici appalti. Si prepara a battere un colpo nelle elezioni del giugno 1987. E mette in cantiere l’assassinio di Giuseppe Insalaco.

Il ruolo dei Ganci

L’istruttoria sul futuro omicidio comincia con la richiesta di Domenico Ganci a un rapinatore del quartiere della Noce di tener d’occhio ogni movimento dell’ex sindaco. Il rapinatore si chiama Aurelio Neri, ha trent’anni, vive nel sogno di essere iniziato come uomo d’onore e nel culto del maggiore dei suoi fratelli, Salvatore. Di quel fratello – confesserà ai magistrati – Aurelio Neri è «innamorato»: di lui e del suo ricordo. Più grande di lui di dieci anni, Salvatore è stato un uomo d’onore della famiglia della Noce: è stato ammazzato nel novembre 1982, nella guerra di mafia. Aurelio Neri lo ricorda così: «Era una persona molto distinta, io lo ammiravo, cercavo di imitarlo in tutto quello che faceva».

Al suo sguardo adolescente, il fratello maggiore appariva circonfuso dallo splendore di Cosa Nostra: «Mi sono reso conto che era uomo d’onore dal suo giro di denaro, dalla sua eleganza, dal fatto che era benvoluto da tutti». Dopo l’assassinio di Salvatore, Raffaele Ganci ha mandato a chiamare Aurelio Neri, gli ha detto di essere molto dispiaciuto per la morte di suo fratello. Questo semplice gesto ha conquistato Aurelio. Quando il maggiore dei figli di Ganci lo ha chiamato per chiedergli un favore, lui si è messo a disposizione.

Il favore che sta a cuore alla famiglia Ganci è molto semplice: uno dei fratelli Neri, Franco, ha una bottega da rigattiere nel mercatino delle pulci. Da quella postazione è facile tenere sotto controllo Insalaco. È appunto questo che Domenico Ganci chiede ad Aurelio Neri: che lui e suo fratello Franco riferiscano i movimenti di Insalaco, «di sapere più cose possibile su questa persona», e senza far parola con nessuno dell’incarico ricevuto. Neri può datare quell’incarico con una certa precisione: risale ai primi mesi del 1987. Sa dirlo perché nel mese di giugno 1987 è stato arrestato per scontare una vecchia condanna.

E ricorda che, prima del suo arresto, Mimmo Ganci ha comunicato a lui e a suo fratello il contrordine: «Tutto a posto, non ci pensate più, il problema è già stato risolto». “Il problema”, in realtà, in quei mesi, è ancora vivo. Quale soluzione gli sia stata data, non può certo saperlo un rapinatore che deve chiedere il permesso alla mafia per fare le rapine. Neri non sa neppure che l’ordine viene da molto in alto: dal capo supremo di Cosa Nostra.

Il racconto del pentito Galliano

Lo racconta un altro collaboratore di giustizia, Antonino Galliano, il nipote di Raffaele Ganci. Anche lui fa risalire la decisione di uccidere Insalaco ai primi mesi del 1987. E ricostruisce il giorno in cui seppe di quella condanna a morte. La scena si svolge in una delle macellerie dei Ganci: in via Lancia di Brolo, non lontano da quel largo Mariano Accardo dove Totò Riina dava appuntamento ai suoi uomini. Galliano passa per caso, vede nel negozio suo cugino Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo, si ferma con loro; i due gli dicono che l’altro cugino, Domenico Ganci, è andato a una riunione della commissione. Galliano decide di aspettarlo. Il patriarca della famiglia, il macellaio capo, Raffaele Ganci, in quei mesi è in carcere.

In assenza del titolare, Riina in persona ha affidato l’incarico di reggere il mandamento ad Anzelmo, che era il vice di Raffaele Ganci, e al maggiore dei suoi figli. È mezzogiorno quando Domenico Ganci torna dalla riunione dei capi mafiosi e riferisce ai presenti che si è parlato di Insalaco come di un «uomo dei servizi segreti civili» che «dà disturbo a persone». Basta quell’accenno al «disturbo» perché Galliano capisca, senza bisogno che nessuno lo dica, che Insalaco deve morire. Le persone disturbate, secondo Galliano, sono «persone esterne a Cosa Nostra». Neppure quando Mimmo Ganci lo convocherà per l’assassinio, Galliano saprà chi sono i “disturbati”, né mai si azzarderà a chiederlo.

L’accenno alle «persone esterne a Cosa Nostra» è una novità interessante. Cosa Nostra ha sempre rifiutato di essere considerata un’agenzia di killer al servizio di mandanti estranei all’organizzazione. Con l’eccezione della misteriosa Entità evocata da Buscetta come ispiratrice di alcuni delitti eccellenti, lo sforzo costante dei collaboratori di giustizia è sempre stato quello di circoscrivere ogni crimine, ogni delitto al cerchio ristretto degli uomini di Cosa Nostra. Ma Galliano sa bene che l’orizzonte delle relazioni dell’organizzazione è molto più vasto. Lo sa per diretta esperienza, perché è stato allevato per diventare il messaggero dei contatti con la zona grigia degli affari, delle professioni. Per questo suo zio Raffaele ha disposto che la sua affiliazione restasse riservata. Chi ordinò l’assassinio di Insalaco?

Le parole di Anzelmo

Un altro collaboratore, Francesco Paolo Anzelmo, il numero due nella gerarchia di comando della cosca della Noce, attribuisce quella decisione all’intera commissione. Ma lo fa sulla base di una supposizione. Parte dalla constatazione che i Ganci hanno agito fuori zona, organizzando il delitto nel quartiere di Resuttana, territorio di un’altra famiglia, i Madonia, e nessuno si è ribellato. L’assenza di reazioni – è il ragionamento di Anzelmo – significa che l’autorizzazione ad agire veniva dal vertice. Nella commissione provinciale di Cosa Nostra, nel tempo in cui viene deciso l’assassinio Insalaco, sedeva Antonino Giuffrè, capo del mandamento di Caccamo, il paese che Giovanni Falcone definì la «Svizzera di Cosa Nostra». Giuffrè esclude che si sia discusso di Insalaco in commissione provinciale, ma ammette di aver sentito parlare di quel delitto, anzi di averne parlato – e non con personaggi di secondo piano: con Bernardo Provenzano e con uno dei Ganci, non saprebbe precisare se Raffaele o Domenico, il padre o il figlio. Dalle risposte che gli furono date, Giuffrè trasse la convinzione che uccidere Insalaco era «un discorso che andava fatto perché era importante andarlo a fare».

Tortuoso giro di frase, che sembra alludere più a un servizio reso che a un progetto pensato in proprio, e fa dell’esecuzione dell’ex sindaco una scelta pesante di Cosa Nostra. Anzelmo ricostruisce l’intera catena di comando: «Totò Riina aveva stabilito che si doveva uccidere il dottor Insalaco e il compito ce l’aveva affidato a noi della Noce». Latore del messaggio è Domenico Ganci. Anzelmo non sa se sia stato ammesso alla riunione in cui la decisione venne presa; forse, semplicemente, ne è stato informato dopo. In ogni caso è Raffaele Ganci, agli arresti domiciliari nella sua casa di Borgo Molara, a stabilire i dettagli. E il capo dei Ganci decide che l’assassinio venga eseguito da suo figlio Calogero e da Francesco Paolo Anzelmo. Al figlio Domenico assegna un ruolo di secondo piano. È sempre Anzelmo a spiegare: «Raffaele Ganci disse a Mimmo di organizzare, di tenere d’occhio il dottore Insalaco e di riferire a me e a Calogero in modo che ci saremmo organizzati».

La versione di Anzelmo è interessante perché accenna a un primo piano d’azione, secondo il quale si era pensato di tendere un agguato a Insalaco sotto il suo negozio al Papireto, in un’area che rientrava nel mandamento di Porta Nuova, dunque nella zona sotto il controllo di Salvatore Cancemi. Nelle decisioni di Cosa Nostra il luogo è parte del messaggio. Un soldato obbediente come Francesco La Marca, fidatissimo killer, sa bene che è «per simbolo» che i cadaveri vengono lasciati in un posto piuttosto che in un altro. Gli è capitato di dover spostare i morti, caricandoli su un furgone per poi «buttarli in mezzo alla strada», in tutt’altra parte della città rispetto a quella in cui erano stati uccisi, perché chi doveva capire capisse il messaggio. Anzelmo è persuaso che Cancemi debba sapere molto del progetto d’omicidio perché avrebbe dovuto avvenire nel suo territorio e anche perché frequentava assiduamente la casa di Raffaele Ganci a Borgo Molara.

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