Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata all’omicidio di Giuseppe Insalaco, sindaco di Palermo ucciso il 12 gennaio del 1988 dopo aver denunciato a più riprese le collusioni tra politica e mafia.

Il 13 aprile 1984, un venerdì, nella Sala delle Lapidi, l’aula del Consiglio comunale, il ragazzo di San Giuseppe Jato diventa sindaco di Palermo. C’è una fotografia che lo ritrae la sera dell’elezione. Insalaco è ripreso di tre quarti, su uno sfondo in ombra. Indossa un doppiopetto scuro, camicia chiara, cravatta scura, tiene gli occhi rivolti in basso, la mano sinistra sulla destra, ha un sorriso quasi infantile, appena accennato, e un lampo furbo negli occhi.

Colpisce, a guardarlo, il suo apparire insieme candido e scaltro. Un uomo doppio.

Il Municipio di Palermo, nel tempo in cui Insalaco ne diventa sindaco, è in apparenza un disastrato baraccone: mancano un terzo dei dipendenti, il bilancio non è stato ancora approvato, non c’è un soldo per finanziare opere pubbliche, nel centro storico resistono le macerie del dopoguerra, quasi metà delle aule scolastiche sono infilate in locali in affitto. A uno sguardo superficiale, quel disastro sembra frutto di incapacità e di sciatteria, se non addirittura la prova provata di un’inferiorità genetica dei meridionali.

Ma a guardarlo con attenzione, il caos risulta sapientemente organizzato, studiato da una regia astuta e subdola.

L’immobilismo della burocrazia serve a inculcare nei cittadini la cultura del favore, a costringerli all’obbedienza obliqua: chiunque abbia bisogno di qualcosa, che sia un certificato o un contributo, deve trovarsi un padrino. Le voragini nella pianta organica sono un vantaggio per una politica specializzata in clientele: servono a illudere migliaia di persone col miraggio del posto e a catturare i voti di famiglie intere.

L’abbandono del centro storico, dove a ogni pioggia gli antichi palazzi si sbriciolano – e spesso qualcuno muore sotto le macerie – è la premessa ideale a un nuovo assalto della speculazione: se tutto crolla, si può costruire tutto da capo. E l’affitto del 48,3 per cento delle aule scolastiche serve al Comune per pompare soldi nell’economia mafiosa. Ogni anno, per quegli affitti – calcola una minuziosa relazione della Commissione antimafia – i costruttori incassano quindici miliardi di lire. Anche i rubinetti asciutti nelle case sono un’occasione per favorire i privati, per lo più mafiosi. La sete di Palermo è un classico tormentone estivo.

Quando nei quartieri popolari casalinghe inferocite si scatenano nei blocchi stradali per chiedere provvedimenti, chi può scandalizzarsi se i dirigenti dell’Amap, l’azienda municipalizzata dell’acquedotto, che ha per presidente un uomo di Ciancimino (il cugino, tanto per render chiaro che sono affari di famiglia), si affrettano a comprare l’acqua dai privati proprietari di pozzi? Tra i maggiori creditori dell’Amap – certifica nel 1984 un’inchiesta giudiziaria – figurano i fratelli Michele e Salvatore Greco. Il loro credito ammonta a due miliardi di lire.

Sospetti

[…] Quanto è costato a Insalaco ottenere l’investitura a sindaco? Quante promesse e quanti compromessi? È certo che, come tutti, ha fatto il giro delle sette chiese del potere. È andato, per esempio, da Leoluca Orlando, per sincerarsi che quel giovane avvocato, così apprezzato a Roma, dove la segreteria De Mita ha intenzione di giocare la carta del rinnovamento, non pensasse di candidarsi. Poi ha consultato Vito Ciancimino.

Ma il sì finale tocca a Salvo Lima, il più potente dei democristiani di Sicilia. E qui bisogna lasciare la parola a un uomo che dice di essere stato testimone dell’incontro decisivo tra Lima e l’aspirante sindaco: Angelo Siino. Che sostiene, anzi, di essere stato l’artefice del successo della candidatura.

Il capo degli andreottiani – rivela Siino – diffidava di Insalaco, lo considerava «ladro e sbirro»: «ladro» perché conosceva e frequentava mafiosi come Stefano Bontate e Salvatore Greco; «sbirro» perché conosceva e frequentava prefetti di polizia come Emanuele De Francesco, generali dei carabinieri come Carlo Alberto Dalla Chiesa ed Enrico Mino (che dell’Arma fu comandante generale dal 1973 al 1977) e alti ufficiali come il colonnello Antonio Subranni. Il vero timore del capo andreottiano – ricostruisce Siino – era che Insalaco, una volta eletto sindaco, si rivelasse inaffidabile nel gestire alcuni grandi appalti. A Lima ne stavano a cuore tre: il risanamento del centro storico, gli appalti banditi dall’Amap e soprattutto la manutenzione di strade e fogne.

Siino sostiene di aver placato i timori di Lima assicurandogli di avere su Insalaco una grande influenza: «Grazie alla mia amicizia, ero in condizione di poterlo condurre a consigli ragionevoli». Sull’incontro a tre, conviene lasciare a Siino la ricostruzione di ciò che si disse: «L’Insalaco manifestò la sua piena disponibilità a curare gli interessi del Lima ed il Lima manifestò particolare interesse soprattutto nella tutela di un gruppo che avrebbe dovuto coinvolgere Cassina e le cooperative rosse e che si sarebbe dovuto occupare della gestione dei grandi appalti di Palermo. chiese garanzie perché i vantaggi che sarebbero derivati al gruppo fossero riconosciuti a lui e non, come era stato in passato, soprattutto a Ciancimino.

Parlando di vantaggi, il Lima fece riferimento anche al profilo economico degli affari e assicurò vantaggi economici anche all’Insalaco». I «vantaggi», sembra di capire, sono né più né meno che tangenti. Concludere l’accordo è una ragione di soddisfazione per Siino: «Sapevo che avrei potuto ottenere l’aggiudicazione di alcuni appalti e soprattutto che ne sarei uscito con un’accresciuta credibilità da spendere sia sul piano degli affari nell’imprenditoria, che sul piano dei miei rapporti con il mondo politico e mafioso».

Nel momento in cui lo racconta alla magistratura, nell’autunno del 1997, Siino è l’unico testimone ancora in vita dell’incontro. Gli altri due sono morti ammazzati. A volerla immaginare, la scena è irresistibile: due politici – un deputato europeo e un promesso sindaco – intenti a negoziare un accordo di affari e di potere per la guida della sesta città d’Italia sotto lo sguardo benedicente dell’uomo di collegamento con la mafia corleonese, che di quell’accordo si candida a essere il garante.

Ma più che cedere al fascino della ricostruzione, può essere utile ragionare brevemente sul senso del racconto. Nessuna sorpresa che Lima potesse tentare di sbarazzarsi del più che ingombrante Ciancimino: in quella primavera 1984 don Vito è troppo compromesso, troppo «chiacchierato» – come allora si diceva – perché il capo della Dc siciliana voglia ancora averlo tra i piedi. E il progetto di sbarazzarsene è forse perfino più antico. Si direbbe che per anni Lima abbia tentato di liberarsi di Ciancimino.

Ne è buon testimone Tommaso Buscetta, che riferì di un suo incontro a Roma con l’eurodeputato siciliano, datandolo all’estate del 1980 e ambientandolo nell’atrio dell’Hotel Flora, sulla strada della dolce vita, via Veneto. In un angolo appartato di quell’atrio, secondo il racconto di Buscetta, Lima gli sussurra che Ciancimino è un problema. Una laconica confidenza, accompagnata da una spiegazione altrettanto laconica: Ciancimino controlla troppi voti e pretende troppo potere.

Buscetta sostiene di aver incassato l’informazione senza domandare perché Lima avesse sentito il bisogno di fornirgliela. Assisteva all’incontro l’esattore Nino Salvo. Toccò a lui, che era un mafioso come Buscetta, fornire a don Masino, in separata sede, l’interpretazione autentica delle parole di Lima. Stabilito che Ciancimino era un problema – decifrò l’esattore – toccava a lui, Buscetta, risolverlo. Era, insomma, una richiesta d’aiuto: di un politico a un mafioso per sbarazzarsi di un politico mafioso. Buscetta la ignorò.

Quattro anni dopo, ecco Lima rivolgersi a Insalaco perché spinga Ciancimino giù dalla giostra miliardaria degli appalti. Quanto a Siino, è possibile che fosse divertito all’idea di fare uno sgambetto a don Vito. Il geometra di San Giuseppe Jato non doveva aver dimenticato che, quando il suo compaesano Giovanni Brusca lo aveva raccomandato a Ciancimino perché gli facesse ottenere qualche appalto, quello aveva risposto che non ci pensava neppure perché Siino «è stato amico del colonnello Russo [ufficiale dei carabinieri ucciso dalla mafia nel 1977, N.d.A.]». Dettaglio: a presentare il colonnello Giuseppe Russo a Siino era stato Insalaco.

Misteri

Restano da capire due misteri. Perché, conclusa quell’intesa, e con l’ingombrante presenza del geometra imprenditore di San Giuseppe Jato come garante, Insalaco – l’uomo che al giornalista Stajano aveva detto, tre anni prima, che a Palermo gli sgarri si pagano col piombo – fece tutt’altro rispetto a quello che aveva promesso.

E perché Siino, che dall’aver patrocinato l’accordo sul nuovo sindaco di Palermo si aspettava affari e potere e venne giocato dal voltafaccia del suo amico d’infanzia, non risulti aver mai ripudiato la sua simpatia per lui, arrivando a prestargli dei soldi negli ultimi mesi della sua vita.

C’è un’altra difficoltà: Siino, che è sempre apparso come il collaboratore di giustizia più informato sui risvolti d’affari delle vicende mafiose, sostiene che negli anni Ottanta sorse un dissidio tra Riina e Provenzano a proposito della scelta di aprire alle cooperative rosse il grande mercato siciliano degli appalti.

Riina, nella ricostruzione di Siino, non voleva «i comunisti intra», a differenza di Provenzano, che invece era deciso a includerli. Ma l’affare che Lima andava prospettando a Insalaco era appunto questo: manovrare per favorire un’intesa che assicurasse alle coop, in solida alleanza con Cassina, il ricco appalto della manutenzione di strade e fogne. Una possibile spiegazione sta nel fatto che il Siino negoziatore non è ancora il procuratore d’affari di Totò Riina, ma un imprenditore quarantenne con molte amicizie nello schieramento corleonese di Cosa Nostra e una rete di relazioni mondane che comprende baroni e principesse.

Dopotutto i rocamboleschi giochi della politica sono materia per prestigiatori, e in una terra complicata come la Sicilia, con la mafia di mezzo, lo sono ancora di più. L’unica cosa chiara è che quel che da Insalaco si voleva, e si riteneva di poter ottenere, era che si prestasse docilmente ai giochi del potere.

E che ubbidisse agli ordini. Con l’intuito delle donne, sia la madre che la moglie fiutarono nell’offerta della sindacatura una trappola. Ernesta Crociata – secondo la nipote – non era contenta che suo figlio diventasse sindaco, e questo fu per lui ragione di sconcerto e delusione. Anche la moglie, che dopo la separazione restò comunque la confidente e la consigliera più fidata di Insalaco, gli sconsigliò di accettare.

E si sentì rispondere: «Se non mi lancio è finita. Sarò sempre una persona che rimane terra terra, e io non ci voglio restare». Testimonierà al processo Piera Salamone: «Voleva assolutamente dimostrare che, una volta diventato qualcuno, poteva fare qualcosa di diverso rispetto a quello che si stava facendo e che lui non approvava, e che comunque non poteva contestare perché non era nessuno». «E che cosa voleva fare?» le domandano in Corte d’Assise. «Un po’ di rivoluzione»

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