Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

L'idea vincente di Gian Carlo Caselli è stata quella di individuare un pool di sostituti per ogni mandamento mafioso e, soprattutto, uno o due magistrati quali esclusivi titolari delle ricerche di ciascun latitante, cosicché ogni notizia che riguardasse quel territorio o il ricercato di turno finisse sempre alle stesse persone.

Era il famoso coordinamento investigativo che, almeno in quegli anni, ha funzionato benissimo.

Riunioni periodiche con le forze di polizia «obbligate» a rivelare le loro informazioni su questo o quel latitante; investigatori che venivano fermati perché la loro pista era già stata imboccata da altri colleghi; divisione dei compiti tra poliziotti, carabinieri e finanzieri; nessuna inutile sovrapposizione di indagini.

Certo, ogni tanto qualche problema si verificava ugualmente. È successo proprio a me di autorizzare i carabinieri del Ros a collocare una microspia in un garage in cui ne avevo già fatta piazzare un'altra su richiesta dei loro stessi colleghi del comando provinciale. Eravamo sulle tracce di Pietro Aglieri e il Ros, che si muoveva sulla base di informazioni confidenziali, aveva individuato un magazzino nel quartiere della Guadagna come possibile luogo d'incontro dei favoreggiatori del capomandamento di Santa Maria di Gesù. Mi avevano dato l'indirizzo e il nome dell'affittuario dell'immobile, un presunto uomo d'onore della locale «famiglia» mafiosa. Il garage aveva però un altro ingresso da una via limitrofa, via che mi avevano segnalato i carabinieri del comando provinciale insieme, stavolta, al nome del proprietario. Così non mi ero reso conto che si trattava dello stesso magazzino: erano diversi sia la via sia il nome di colui che ne avrebbe avuto la disponibilità. Ci siamo accorti dell'errore solo a operazione conclusa, quando i carabinieri per poco non si sparavano tra loro al momento di recuperare le rispettive microspie.

Le microspie, le «cimici», sono le nostre orecchie sul territorio, strumenti indispensabili per ogni investigazione. Ma occorre saperle usare. Saper scegliere il posto dove collocarle e, soprattutto, il modo in cui farlo.

Se l'operazione è relativamente facile quando si tratta di una masseria o di un garage in disuso, le cose si complicano quando bisogna entrare nelle abitazioni private. Non è certo una questione di serrature.

Non ne esistono di impossibili. I cosiddetti «chiavari» dei servizi segreti sono in grado di entrare dappertutto e aprono ogni porta senza lasciare tracce. Il problema sorge quando gli inquilini escono poco di casa. Allora bisogna ricorrere a qualche stratagemma che non dia sospetto.

Inutile simulare tentativi di furto o effettuare una perquisizione per collocare una cimice. Altrettanto inefficaci con il passar del tempo sono diventati i falsi tecnici della luce o del gas che si presentano per riparare presunti guasti alla rete. Dopo la «visita» gli abitanti, ormai esperti, effettuano un'accurata bonifica e regolarmente individuano la microspia. Sono arrivati perfino a prenderci in giro. Com'è accaduto qualche volta di fronte alle telecamere disseminate nelle campagne di mezza Sicilia. Una di queste, piazzata male per le vie di Marineo, a pochi chilometri da Corleone, non era stata mimetizzata bene ed era diventata il divertimento dei paesani. Passavano davanti all'obiettivo e salutavano con un inchino: «Buongiorno maresciallo, qui tutto a posto! Omaggi alla sua signora!».

Microspie dappertutto

Ci si industria come si può. Si ricorre ad altri metodi per tirare la gente fuori di casa e avere il tempo di lavorare senza il rischio di essere scoperti. Perché non è facile collocare una microspia o una telecamera.

Non basta soltanto aprire una porta. Bisogna stabilire in pochi secondi il luogo migliore in cui nasconderla, tenendo conto di alcune variabili: rumori di fondo e interferenze radioelettriche degli elettrodomestici.

I mafiosi sono particolarmente attenti. Mi ricordo di un colloquio intercettato negli uffici della Dia, la Direzione investigativa antimafia, tra un neopentito e i suoi familiari. Non fu possibile comprendere quasi nulla perché i parenti del collaboratore si erano appositamente portati appresso una bambina che aveva un preciso compito: battere fragorosamente su un tamburo di plastica per tutta la durata della conversazione.

Bisogna anche trovare un posto da cui la cimice possa trasmettere le voci all'esterno. Talvolta non è possibile collegarla alla linea telefonica o installarne una ad hoc e allora è necessario utilizzare apparecchi radio con i conseguenti problemi determinati dalla durata delle batterie, dal rischio di interferenze e dalla necessità di collocare dei ripetitori del segnale.

È materiale sofisticato, che costa parecchio. Alcune forze di polizia avevano acquistato delle microspie, ma gli investimenti non si erano rivelati particolarmente oculati. Si tratta di tecnologia in costante evoluzione e, quindi, dopo un po' ci si ritrova con strumenti obsoleti e non sempre affidabili.

Io preferivo noleggiare le apparecchiature rivolgendomi a fornitori privati. Dopo una mirata indagine di mercato sul rapporto qualità-prezzo ne avevo individuato uno di cui mi fidavo e con il quale avevo stipulato verbalmente un accordo: tu mi fornisci la tecnologia più avanzata, gli ultimissimi modelli, e mi dai, in tempo reale, l'assistenza necessaria. Se riusciamo a catturare il latitante, ti liquido le fatture per intero. In caso contrario, ti pago solo il venti per cento. In fondo un piccolo prezzo alla lotta alla mafia dobbiamo pagarlo tutti. Lui capisce e accetta. Si sente motivato. E lo dimostrerà fornendoci sempre materiale d'avanguardia e rendendosi disponibile per ogni esigenza.

Mentre siamo in piena fibrillazione nella ricerca di Pietro Aglieri, una microspia smette di funzionare a causa di un blackout sul ponte radio. Sono giorni di scioperi selvaggi nei trasporti aerei. Non si vola.

Quella cimice è decisiva: il fornitore noleggia a sue spese un aereo privato da Milano e due ore dopo è a Palermo a riparare il guasto.

La tecnologia di cui potevamo disporre già in quegli anni ci ha dato una marcia in più. È stata un'arma spesso decisiva per contrastare Cosa nostra e a Palermo siamo stati dei veri pionieri nell'applicarla alle investigazioni. Già a partire dal 1997 avevamo telecamere piazzate a centinaia di chilometri di distanza che riuscivamo a manovrare direttamente dalla questura; computer che ci permettevano di archiviare l'algoritmo del volto del latitante e che poi segnalavano se una persona con quelle caratteristiche entrava nell'obiettivo di una videocamera; localizzatori satellitari con margini d'errore minimi; microspie autoalimentate talmente piccole ed efficienti da poter essere nascoste nell'interruttore di un abat-jour; sofisticati software di elaborazione del traffico telefonico... Abbiamo persino sperimentato un piccolo aeromodello riproducente un Md 80 dell'Alitalia che volava a qualche centinaio di metri dal suolo effettuando riprese video e che, dal basso, sembrava un vero e proprio jet della nostra compagnia di bandiera che viaggiava a 8000 metri di quota.

[...] Mi ero specializzato nella caccia ai latitanti e per questo condividevo con Gian Carlo Caselli un piccolo, innocuo segreto.

Avevo cominciato quasi per gioco nel 1994, scrivendo all'interno della copertina dell'agenda del mio capo l'elenco dei latitanti più pericolosi su cui stava lavorando la procura di Palermo. Da allora all'inizio di ogni nuovo anno ripetevo l'operazione, aggiornando periodicamente la lista dei ricercati.

Dopo ogni cattura entravo nella sua stanza, chiudevo la porta, mi sedevo e, con calma, gli consegnavo un foglietto in cui erano riportate le indicazioni sommarie sulla personalità e il profilo criminale del latitante e sulle operazioni che avevano portato all'arresto, dati necessari a Caselli per l'inevitabile conferenza stampa.

Gian Carlo leggeva attentamente il mio appunto e poi apriva la sua agenda. Lentamente, come fosse un rito. Sorrideva e quindi, senza nascondere la sua soddisfazione, depennava dalla lista il nome dell'arrestato di turno. Con un segno netto di inchiostro verde. Tratto inconfondibile della sua stilografica.

copertina libro sabella cacciatore

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