Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tocca al racconto della strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.

Le acquisizioni di cui si è dato sinora conto consentivano di approfondire ancora di più l’originario spunto investigativo, perché l’avvenuta individuazione di parte di coloro che, fondatamente, poteva presupporsi avessero avuto qualcosa a che fare con l’evento-strage, spingeva gli investigatori al passo successivo, cioè quello di verificare se, attraverso il controllo del traffico cellulare fra gli apparecchi intestati ai soggetti individuati, potesse risalirsi all’individuazione di conversazioni telefoniche fra gli stessi nei momenti prossimi alla realizzazione dell’attentato.

Ciò sulla base di una logica molto elementare, che è ben illustrata dal teste Pansa Alessandro dirigente della Polizia di Stato, (escusso all’udienza del 9-1-96). «Poiché il giudice Falcone era partito da Roma con un volo non di linea e quindi con un orario che non poteva essere conosciuto all'esterno, prestabilito, poiché vi era stato poi un trasferimento, vi doveva essere un trasferimento arrivato a Palermo, l'aeroporto di Punta Raisi al centro urbano di Palermo lungo un tratto autostradale, si pensò che il commando, coloro che avessero organizzato l'attentato avevano bisogno di comunicare tra di loro trovandosi in gruppi sparpagliati, divisi teoricamente tra Roma e Palermo, e a Palermo in diversi luoghi.

Poiché le comunicazioni tra di loro potevano avvenire quasi esclusivamente per telefono e poiché, soprattutto nel luogo della strage diversamente che dagli altri luoghi, non risultava che ci fossero apparecchi telefonici fissi se non quelli nelle case, nelle abitazioni circostanti, si pensò che fosse logico ipotizzare che il commando avesse fatto uso di apparecchi telefonici cellulari. Quindi, in linea di principio, non avendo all'epoca alcun elemento dell'immediatezza del fatto sulle modalità più specifiche di esecuzione dell'attentato, si pensò che vi potesse essere stata una comunicazione da Roma per l'orario di partenza dell'aeromobile, una comunicazione di arrivo dell'aeromobile ed una comunicazione dall'aeroporto al luogo dell'attentato per dare i tempi dell'arrivo della macchina sulla quale viaggiava il giudice Falcone.

Il primo dato che isolammo furono tutte le chiamate avvenute in Sicilia tra, ripeto, se non ricordo male, tra le 17.40, momento dell'atterraggio, e le 17.58, 57, non mi ricordo, il momento dell'esplosione, che era una fascia oraria di alcuni minuti e vi erano stati effettuati in quella fascia oraria, se non ricordo male, 320 conversazioni telefoniche che interessavano poco più di 500 utenze radiomobili.

In quella fascia, tra tutte queste utenze ve n'erano sicuramente alcune che potevano essere coinvolte nella vicenda; in particolare ve ne fu una che era quella che aveva effettuato una telefonata lunga, credo 320, 325 secondi, che era poi quella che fu dichiarata essere stata usata da La Barbera e Gioè nel momento del pedinamento, se così si può dire, da Punta Raisi fino all'uscita di Torretta, per seguire la macchina del giudice Falcone».

Microfoni dappertutto

Ed ancora la Dott.ssa Pellizzari, sentita all’udienza del 6-12-95: «Noi siamo partiti dall'apparato cellulare 0337-463777 che era intestato ed in uso a Gioacchino La Barbera. Analizzando le telefonate in entrata ed in uscita su quel telefono, in particolare il giorno della strage, cioè il 23 maggio del '92, si verificò che a partire dalle ore 17.00 in poi vi era un intenso traffico sia in entrata che in uscita con altri apparati cellulari. In particolare il traffico più intenso era con il cellulare di Di Matteo Mario Santo, che qui leggo essere il numero 0336-890173, ma esisteva traffico anche con gli apparati cellulari intestati a Ferrante Giovanbattista, che è il numero 0337-957725 e con un altro apparato cellulare intestato a Ruisi Utro Mariano che è lo 0336-8903. All'epoca dell'attentato Gioè Antonino non aveva ancora in uso un apparato cellulare e quindi il suo apparato fu immediatamente escluso, in quanto, pur avendo lui poi acquisito un apparato cellulare che era intestato a Gioè Anna, le prime telefonate riferibili a quel telefono erano del 2 giugno, e quindi in epoca successiva alla data dell'attentato. Alle 17.02, quindi in orari abbastanza prossimi rispetto a quelli in cui avvenne poi l'attentato, il La Barbera Gioacchino, quindi il cellulare di La Barbera Gioacchino riceve una telefonata dal cellulare di Ruisi Utro Mariano, della durata di 8 secondi.

Alle 17.05, che è la telefonata successiva, il cellulare di Ferrante Giovanbattista effettua una telefonata al cellulare di La Barbera Gioacchino della durata di 11 secondi. Stessa situazione alle ore 17.48, sempre il cellulare di Ferrante Giovanbattista, comunque intestato a Ferrante Giovanbattista, effettua una telefonata a quello di La Barbera Gioacchino della durata di 10 secondi. Alle 17.49 c'è una telefonata, una conversazione tra il cellulare di La Barbera Gioacchino e quello di Di Matteo Mario Santo, che è particolarmente significativa sia per l'orario, 17.49, sia per la durata che è di 325 secondi, quindi praticamente 6 minuti di conversazione. Questo è significativo se si considera che l'orario in cui è avvenuto l'attentato sono le 17.57 circa. Quindi, questa è una telefonata proprio a ridosso dell'attentato. Più avanti abbiamo ancora una telefonata successiva all'attentato, quindi delle ore 18.39, La Barbera riceve una telefonata sempre dal cellulare di Di Matteo Mario Santo, della durata di 25 secondi. Più avanti ancora, alle 19.49, c'è una telefonata tra Gioacchino La Barbera e Di Matteo Mario Santo, comunque tra i due cellulari in uso, intestati agli stessi, della durata di 23 secondi. Di seguito ancora, alle 19.53, altra conversazione tra il cellulare di Di Matteo Mario Santo e quello di Gioacchino La Barbera, durata 10 secondi. 19.55, altra telefonata tra il cellulare di Di Matteo Mario Santo e quello di Gioacchino La Barbera, della durata di 37 secondi.

20.06, altra conversazione, questa volta tra il cellulare di Gioacchino La Barbera e quello di Di Matteo Mario Santo, quindi in uscita dal cellulare di Gioacchino La Barbera, della durata di 42 secondi. Più avanti ancora, 20.15, il cellulare di La Barbera Gioacchino chiama quello di Di Matteo Mario Santo, durata 5 secondi.

Ed infine una telefonata delle 21.03, La Barbera Gioacchino riceve una telefonata dal cellulare di Di Matteo Mario Santo, durata 8 secondi. Quindi questa è la successione delle conversazioni intercorse tra il cellulare di Gioacchino La Barbera ed altri il giorno della strage dopo le 17.00».

L’analisi del traffico telefonico registrato a carico del La Barbera e del Di Matteo consentiva di far emergere una frequentazione in orari prossimi alla strage tra il cellulare di Ferrante Giovanbattista e quello di La Barbera Gioacchino.

Si era cominciato pertanto a prendere in considerazione la figura di Ferrante Giovanbattista, all'epoca sconosciuto agli inquirenti, e la prima cosa emersa era che questi era nipote di Ferrante Giovanbattista, suo omonimo, noto agli inquirenti come indiziato mafioso appartenente alla famiglia di San Lorenzo.

Da successivi accertamenti effettuati anche a mezzo di acquisizioni di attività investigative svolte da altri uffici, emergeva che il Ferrante veniva indicato da un collaboratore di giustizia, Lo Cicero Alberto, quale persona molto vicina a Troia Tullio Mariano. I Carabinieri che tenevano d'occhio nel mese di gennaio del '93 Sensale Giuseppe, sul quale stavano effettuando delle attività di indagine, rilevavano che il Ferrante era stato notato entrare ed uscire dalla cava di Sensale Giuseppe, a bordo della sua autovettura.

Da accertamenti emergeva anche che Ferrante Giovanbattista era socio di una ditta di autotrasporti alimentari, assieme a Gioè Giuseppina, che si accertava essere la moglie di quel Biondino Salvatore tratto in arresto assieme a Riina Salvatore.

Emergeva, altresì, che nell' 88 il Ferrante Giovanbattista era stato identificato da una pattuglia della Squadra Mobile in viale Michelangelo, a Palermo, assieme a Biondo Salvatore, odierno imputato. Anche sul conto di quest’ultimo venivano quindi effettuate delle ricerche sugli atti in archivio, in base alle quali si accertava che era collegato con Biondino Salvatore, con il quale era stato identificato o, comunque, con il quale era stato in un albergo di Genova sempre nel mese di dicembre del '92.

Con tutto ciò si qualifica in qualche modo la personalità o comunque la persona di Ferrante Giovanbattista e, su autorizzazione dell'A.G. di Palermo e di Caltanissetta, si inizia un'attività investigativa nei confronti di Ferrante Giovanbattista, attraverso sia intercettazioni telefoniche che attività di controllo del territorio. Attività che viene iniziata verso la fine del mese di giugno e che si protrae fino al suo arresto, che è del novembre del 1993.

Si procedeva, poi, ad identificare Santino Mezza Nasca in Di Matteo Mario Santo, come personaggio abitante ad Altofonte, ivi nato, soprannominato Santino "mezza nasca", figlio di Giuseppe "mezza nasca", indiziato mafioso, personaggio del quale già il collaboratore di giustizia Di Maggio aveva parlato, indicandolo come appartenente alla famiglia di Altofonte, e al mandamento di San Giuseppe Jato.

Quanto precede era dunque ciò che si era acclarato in esito agli sforzi investigativi della Dia. Occorre a questo punto esaminare quali siano stati i risultati ottenuti dai Ros.

Le indagini del Ros sui Ganci

L’attività del nucleo si concentrava sull’osservazione degli spostamenti, attraverso riprese televisive e fotografiche, nonché sull’intercettazione delle conversazioni, di uno degli odierni imputati, Ganci Raffaele.

E’ stato lo stesso Di Caprio ad indicare i motivi per cui le indagini presero le mosse proprio dal Ganci ( ud. 23-11-95). «...Siamo partiti da Ganci Raffaele, perchè era ritenuto l'elemento di vertice della famiglia mafiosa della Noce, perchè già in passato era stato tratto in arresto per favoreggiamento personale nei confronti di Gambino Giacomo Giuseppe, che è personaggio molto rilevante all'interno di "Cosa Nostra" in quanto ci veniva indicato come il capo della famiglia mafiosa di San Lorenzo, da sempre uno delle persone di maggior affidamento per Riina Salvatore. I legami storicamente evidenziati dalla serie di sentenze che legavano la Noce, territorio controllato dalla famiglia dei Ganci, a Riina Salvatore, trovano ulteriore riscontro in quanto documentato nella relazione di servizio del giorno 7 ottobre 1992. Praticamente in quella circostanza abbiamo seguito Ganci Domenico, il figlio di Ganci Raffaele, che era andato ad accompagnare la moglie all'interno di via Lo Monaco Ciaccio nr. 32, che è in fondo alla via Auditore.

Ed allora, praticamente, dall'abitazione dove c'aveva la residenza la sorella della moglie di Ganci Domenico, via Lo Monaco Ciaccio nr. 32, lui esce con l'autovettura Mercedes, percorre la via Auditore, gira in via UR15 ed arriva nel controviale di via Regione Siciliana. In viale Regione Siciliana incrocia e supera la via Bernabei, anzi Bernini, e raggiunge il bar "La Licata"; scende dall'autovettura, conversa brevissimamente con un soggetto sconosciuto, risale nuovamente a bordo della Mercedes, percorre un 20 metri, gira a destra in via Giorgione. In via Giorgione, proprio dove c’è la scritta che indica la via Giorgione, la strada è chiusa, nel senso che c'è un cancello con il divieto di accesso, e sulla destra continua e sbuca esattamente in via Bernini: più sulla destra, lì la via Giorgione raggiunge la via Bernini, sulla sinistra è posizionato il nr. 131, che è quell'isolato lì sulla sinistra, e sbuca esattamente a circa 10 metri, non di più; 10 - 15 metri al massimo sulla sinistra c'è il civico nr. 54 di via Bernini dove il giorno 15 gennaio 1993 è uscito Riina Salvatore su un'autovettura Citroen ZX condotta da Biondino Salvatore».

La circostanza che uno dei figli di Raffaele Ganci, Domenico, odierno imputato, fosse a conoscenza del luogo ove si nascondeva Salvatore Riina, capo storico di Cosa Nostra, da anni latitante, costituiva pertanto circostanza che denotava l’intensità di un rapporto che, data la condizione del Riina, non poteva che essere improntato ad una grossa fiducia reciproca, e perciò sintomo di un legame profondo fra le due famiglie.

Quel che destava immediatamente la curiosità degli investigatori, in esito alle prime valutazioni dell’attività di indagine a carico del Ganci, era che lo stesso, sebbene formalmente risultasse avere sia in proprio che attraverso il figlio Domenico, e altri affini (Levantino Paolo per “Amici a Tavola”) interessi economici concentrati esclusivamente nella gestione di esercizi commerciali che si occupavano della commercializzazione al dettaglio di carni bovine, veniva visto con assiduità in un cantiere edile in piazza Principe di Camporeale.

Ed ancora il teste Di Caprio ha riferito: «[...] Da un punto di vista formale non vi era nessuna ragione che potesse giustificare la presenza di Ganci Raffaele all'interno del cantiere, ma soprattutto quello che ci ha dato indicazioni sul perchè Ganci Raffaele stava all'interno del cantiere e, quindi, che tipo di inserimento lui avesse in quella società è il tipo di comportamento che lui teneva all'interno del cantiere, perchè erano frequentazioni diverse da quelle che avevano i normali clienti che andavano lì all'interno che cercavano di acquistare un'abitazione. Stava all'interno, frequentava il cantiere quasi, possiamo dire, in un orario di ufficio; all'interno si muoveva e controllava l'andamento, controllava gli operai, guardava gli operai, parlava e disponeva degli operai, e quindi per noi era una partecipazione occulta.

E quindi il fatto era questo: un macellaio che aveva attività anche formalmente, quindi, legate all'ambiente della macelleria, di fatto frequentava un cantiere edile. Questa era sempre stata un'altra tematica di fondo per coloro che hanno trattato "Cosa Nostra", cioè gli appalti, che da sempre noi avevamo sentito dire che erano elemento fondamentale dell'economia di "Cosa Nostra", più di quello che poteva essere il traffico delle sostanze stupefacenti: quindi il cantiere di via Paolo Gili è stato ritenuto per noi un obiettivo rilevante nel contesto investigativo che sostenevamo, pertanto l'abbiamo sottoposto ad analisi sia sotto il profilo dell'osservazione con riprese televisive sia sotto il profilo, successivamente, anche delle intercettazioni ambientali. All'interno del cantiere di via Paolo Gili le attività di intercettazione delle conversazioni tra presenti ha evidenziato soprattutto tre conversazioni. Queste conversazioni sono quasi tutte quelle del giorno 20 novembre 1992: c'è stata una prima conversazione in cui Ganci Raffaele alla presenza di Corso Salvatore e di Ganci Domenico, il nipote di Ganci Raffaele, non il figlio, Ganci Raffaele diceva che aveva visto un programma televisivo nel corso del quale venivano intervistati dei detenuti, e questi detenuti alla fine finivano il programma che brindavano felici proprio nella circostanza dell'omicidio e della strage del giudice Borsellino. Quindi Ganci Raffaele parlava di questo programma che aveva visto, parlava di questi detenuti che brindavano felici perchè era stato ucciso il giudice Borsellino e tutti insieme, il Ganci Raffaele con Corso, ridevano. Quindi mostravano la loro partecipazione alla gioia dei detenuti. E questo per noi era stato un momento, perchè voleva dire: "Allora queste persone, ovviamente, si propongono in termini antagonisti allo Stato e non provano disprezzo per queste persone in una situazione così riprovevole, ma ne sono liete", quindi evidentemente erano persone che si schieravano e si identificavano nel contesto antagonista dello Stato. […]».

[…] In definitiva l’attività di osservazione sulla persona indicata si era mostrata proficua, essendo emersi a carico del soggetto attenzionato indizi in ordine alla sua vicinanza e frequentazione di un personaggio dello spessore di Salvatore Riina; al suo interesse nella gestione di un cantiere edile a cui formalmente appariva estraneo; ad atteggiamenti di non dubbia ostilità nei confronti delle istituzioni, e di rimando, condivisione degli scopi di organizzazione ad esse contrapposta, ed infine, e soprattutto, in ordine alla frequentazione di Cancemi Salvatore.

Tale ultimo elemento può porsi come punto di partenza della successiva esposizione, perché sono state proprio le dichiarazioni di Di Matteo Mario Santo, Cancemi Salvatore e La Barbera Gioacchino, a dare una svolta decisiva alle indagini, consentendo di acquisire elementi che portavano all’emissione nel novembre 93 di ordinanze di custodia cautelare nei confronti degli odierni imputati.

Testi tratti dalla sentenza della Corte d'Assise di Caltanissetta (Presidente Carmelo Zuccaro)

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