Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Lo «spettacolo» vero comincia nell’autunno del 1983. L’11 novembre arriva a Palermo il nuovo consigliere istruttore, quello che deve prendere il posto di Rocco Chinnici ammazzato a luglio. Ha sessantatre anni, cereo in volto, è quasi calvo, veste dimesso, passa inosservato, è schivo, sembra gracile, parla poco e ascolta tanto.

Si chiama Antonino Caponnetto, è originario di Caltanissetta e viene dalla Corte di Appello di Firenze. Ha fama di uomo virtuoso e di magistrato di vecchio stampo. Non sa nulla di mafia, di trafficanti, di Rosario Spatola e di Vito Ciancimino. Gli avvocati dei boss si scambiano strizzatine d’occhio, fanno battute su quel magistrato dall’aspetto così anonimo e ormai prossimo alla pensione. È quello che ci vuole per Palermo dopo le «intemperanze» di Rocco Chinnici, uno che la mafia la vedeva dappertutto e andava pure a raccontarla nelle scuole.

Gli avvocati di Palermo prendono un grosso abbaglio. Una settimana dopo il suo insediamento, Antonino Caponetto, che a Firenze ha lasciato moglie e tre figli, convoca i giudici istruttori nella sua stanza. Parla per pochi minuti. Dice: «Dobbiamo continuare il lavoro dal punto dove Rocco è stato costretto a interromperlo, dobbiamo andare avanti tutti insieme». È la nascita ufficiale del pool antimafia. I semi li ha gettati Chinnici, l’«invenzione» di una struttura specializzata per contrastare la mafia è di Caponnetto. Il nuovo consigliere istruttore scrive a Gian Carlo Caselli e a Ferdinando Imposimato, chiede indicazioni tecniche su come si sono organizzati in «squadre» negli anni del terrorismo. Decide di assegnare a se stesso – il capo dell’ufficio – tutti i procedimenti di criminalità organizzata e distribuire ai giudici le deleghe per i singoli atti. Poi sceglie gli «allievi» di Rocco. Sono loro il pool. Uno è Giovanni Falcone. L’altro Paolo Borsellino. Il terzo Giuseppe Di Lello, il quarto Leonardo Guarnotta.

Il consigliere venuto da Firenze è il loro scudo in una Palermo sempre più incarognita. È il fratello più grande, l’amico, il galantuomo al comando di un ufficio giudiziario che diventa il motore di tutte le indagini sulla mafia siciliana. Da quel momento cambia per sempre la vicenda di Palermo. Antonino Caponnetto, della città dove è finito, conosce solo i «percorsi» in cui s’infilano gli agenti della sua scorta, le strade che dalla caserma di via Cavour portano al Tribunale.

Vive come un monaco nella foresteria della Finanza, una branda, le Confessioni di Sant’Agostino e la Recherche di Proust sul comodino, la mensa, il giorno dopo sempre come il giorno prima. I magistrati del pool trovano posto in un mezzanino buio, dietro una porta blindata. Lì Giovanni Falcone trasferisce anche le sue papere. Oltre a quelle di terracotta, adesso ne ha diverse in vetro e alcune di legno, preziosissime, colorate a mano. È una stagione speciale per Palermo. Al ministero di Grazia e Giustizia si alternano Mino Martinazzoli e Virginio Rognoni, all’Interno c’è Oscar Luigi Scalfaro. Arrivano mezzi e uomini in Sicilia. Arrivano auto blindate, fotocopiatrici, i primi computer. Cominciano a ricevere deleghe d’indagine dal pool antimafia anche tre funzionari della Criminalpol di Roma, poliziotti moderni, molto svelti, fidatissimi. Sono Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli e Alessandro Pansa.

L’inchiesta su Rosario Spatola si allarga ogni mese di più, adesso ha 120 imputati. Quello che riserva l’immediato futuro, però, non se lo immagina nessuno a Palermo. Neanche Giovanni Falcone. La telefonata gli arriva una mattina d’inizio d’estate del 1984 da Gianni De Gennaro: «Buscetta vuole parlare». Falcone pensa: «De Gennaro è ubriaco».

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