Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Finisco anch’io in carcere. È il 16 marzo del 1988. E con l’amico Saverio Lodato, un bravissimo giornalista de l’Unità, dopo il tramonto entriamo ai «Cavallacci» di Termini Imerese, una delle prigioni fortezza volute dal generale dalla Chiesa. Siamo colpevoli di avere pubblicato le confessioni del pentito Calderone. Prima di scrivere i nostri articoli aspettiamo che tutti i mafiosi vengano catturati, non facciamo scappare neanche un ladro di galline. Poi consegniamo i «pezzi». Sui Costanzo di Catania, sul ministro Gunnella, su Salvo Lima.

L’accusa è di «concorso in peculato con pubblico ufficiale rimasto ignoto». S’inventano questa cervellottica incriminazione (la parola peculato poi, ricorda tanto chi ruba) sostenendo che le fotocopie dei verbali di Calderone – quelle che ci hanno passato – sono «un bene dello Stato».

In carcere restiamo una settimana. Ci scrive il presidente della Camera Nilde Jotti, ci difende in un’intervista Giovanni Falcone, protestano i giudici di Magistratura Democratica, ci vengono a trovare ai Cavallacci il presidente della Commissione parlamentare antimafia Gerardo Chiaromonte e uno dei commissari, il nostro amico Nino Mannino.

Ci attacca in prima pagina Il Giornale di Sicilia. L’ordine di cattura è firmato dal procuratore capo della repubblica, Salvatore Curti Giardina, un magistrato che è a Palermo da tre anni e non ha mai messo la sua firma su un provvedimento restrittivo contro un mafioso. Di Lodato e di me scrive che siamo «socialmente pericolosi».

Il procuratore l’avevo conosciuto qualche anno prima, quando era presidente di Corte di Assise. Ho seguito tutte le udienze di un suo processo, quello per l’uccisione del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Vi racconterò di più del procuratore capo Curti Giardina nel prossimo capitolo.

L’azione di Antonino Meli

Il nuovo consigliere istruttore Antonino Meli avoca l’inchiesta, la sbriciola in una quindicina di tronconi, spedisce brandelli di ordinanza alle procure di competenza sparse per la Sicilia. Con una firma riporta la lotta alla mafia all’età della pietra. Prima dell’avvento di Chinnici e della «creatura», il pool, voluto da Caponnetto. Non è solo un errore di metodo.

E l’azione di Antonino Meli non è ispirata soltanto da un’altra filosofia giudiziaria. La divisione dell’inchiesta che impone – «lo spezzatino antimafia», lo chiamano i palermitani che capiscono di queste cose – è in perfetta sintonia con ciò che va teorizzando e praticando, annullando centinaia di sentenze di condanna ai boss, il presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione Corrado Carnevale. E cioè che quei mafiosi che Falcone fa arrestare non appartengono a una sola organizzazione – Cosa Nostra, che non esiste – ma «a un’accolita di bande» senza una direzione strategica. Gang di assassini e non «famiglie», cani sciolti senza una testa. Senza una Cupola.

L’altissimo giudice ha già ridotto in carta straccia molti processi. Nel frantumare l’inchiesta Calderone il consigliere Meli nega la competenza territoriale di Palermo per i reati di mafia, è una sconfessione assoluta del pool e delle indagini di Falcone.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, con la sua nomina, ha fatto il capolavoro. Giovanni Falcone è fuori gioco. Soprattutto, è tracciata la via per l’Appello del maxi. Ci sarà – è scontato – un’altra sentenza. Il «teorema Buscetta» – o come con disprezzo dicono, il «teorema Falcone» – si sbriciolerà con il senno di giudici giusti. A Palermo è rivolta.

I magistrati del pool sono indignati, in silenzio Falcone annuncia le sue dimissioni, il Tribunale siciliano diventa il «Palazzo dei veleni». Un giorno, Meli accusa Falcone anche di collusione per non aver fatto arrestare Carmelo Costanzo, uno dei grandi costruttori di Catania. È il delirio. Un furore che serve a infangarlo sempre di più. Lui, che ha il culto del riserbo, prova a non farsi travolgere dalle polemiche, fa un passo indietro, si getta a capofitto sulle sue inchieste, finge che non sia accaduto niente. Non ha il tempo di smaltire le tossine della vicenda al Csm che, per lui, fra Roma e Palermo hanno pronta un’altra umiliazione.

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