Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Giovanni Falcone e sulla strage di Capaci di trent’anni fa.


Siamo a Catania, è il 28 febbraio del 1991. Giovanni Falcone è in un’aula di Corte di Assise come testimone nell’ultimo troncone del processo per l’uccisione del procuratore Gaetano Costa. È in attesa di presentarsi davanti ai giudici. Mi siedo accanto a lui. Lo invito a colazione. Risponde: «Vengo, ma a due condizioni: niente interviste e il ristorante lo scelgo io». Allargo le braccia in segno di resa. Lo chiamano i giudici. Si volta: «Alle 14.30 al Costa Azzurra». Sono stupito della scelta, lui sorride ancora e dice: «Lì siamo coperti».

Il Costa Azzurra è un ristorante sulla splendida baia di Ognina, il proprietario – il cavaliere Alioto – è stato sfiorato da un’indagine di Falcone. Alle 14.30 arriva puntuale. Il cavaliere Alioto, appena lo vede, diventa paonazzo. Poi fa salti di gioia per un ospite così importante nel suo locale. I sette uomini della scorta si siedono a qualche metro di distanza.

Il ristorante è deserto. In un angolo lontano solo un anziano signore calvo, gli occhiali che sembrano vetri di bottiglia. Chi è?, chiedo al cavaliere Alioto. «L’avvocato Cannizzaro, viene qui ogni giorno per pranzo». Giovanni Falcone è a capotavola. Alla sua destra c’è Francesco La Licata de La Stampa, alla sua sinistra ci sono io, e accanto a me Felice Cavallaro del Corriere della Sera. Ordiniamo. Mangiamo. E, intanto, Giovanni Falcone comincia a parlare del suo nuovo incarico a Roma. Verso le 15,30, al Costa Azzura arriva anche Pietro Grasso, il procuratore nazionale antimafia che all’epoca è al ministero di Grazia e Giustizia. Dopo i frutti di mare, arriva il sarago. Tempestiamo di domande Falcone. Risponde a tutto. Nessuno di noi tira fuori i taccuini. «Grappa, per favore», chiede lui al cameriere. Sono passate da poco le 17 quando ci salutiamo. Conosciamo le regole. Falcone ha parlato ben sapendo che le sue parole sarebbero finite sui giornali, ha cambiato idea, lui l’intervista la vuole. Torno in albergo, chiamo Repubblica, liberano una pagina, l’indomani esce un bellissimo racconto di Giovanni Falcone sul suo ultimo giorno siciliano.

Diciotto anni dopo, giugno 2009. Sul divano di casa mia, a tarda sera sfoglio una rivista. C’è un articolo sul procuratore Grasso. Parla di Palermo, del maxi processo dove è stato giudice a latere, delle gioie e delle delusioni di una vita. E dei pericoli, delle paure. Racconta che ha rischiato di morire più di una volta. «Anche a Catania, un giorno lontano di febbraio, ero con Falcone e tre giornalisti, l’agguato stava per scattare…».

I killer sono appostati fuori dal Costa Azzurra, sono pronti a fare fuoco per uccidere Giovanni Falcone e poi tutti gli altri. Noi. Ma aspettano il via libera da Benedetto Santapaola, il capo di Cosa Nostra a Catania. Lo cercano disperatamente, non lo trovano. E non si muovono. Io ho saputo del mancato attentato solo tanto tempo dopo e solo sfogliando quella rivista. Nessuno mi ha mai detto niente, nessuno mi ha mai avvertito che ho rischiato di morire ammazzato e che sono vivo soltanto perché al tempo solo in pochi avevano il cellulare. Finisco di leggere l’articolo su Grasso e lo chiamo. «Ma come è possibile che nessuno le abbia mai detto niente?». È possibile procuratore. Chiamo La Licata. «Ciccio, ma tu sapevi?». Lui: «Sì, verso il 1993 e il 1994 mi sono arrivati i verbali di alcuni pentiti che raccontavano tutta la storia del Costa Azzurra. Ma perché me lo chiedi?».

Perché lo sto scoprendo soltanto ora, stasera. Nel 2009.

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