Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.


Piazza Politeama è rossa di bandiere. Il 1° maggio del 1982 Pio La Torre non è fra le rocce di Portella della Ginestra e nemmeno davanti alla base dei missili a Comiso. È dentro una bara che, il giorno dopo, sfila per le vie di Palermo. Partigiani e corone di fiori, amici e nemici. Tutti insieme per l’ultimo saluto. Forse sono centomila, forse di più. Funerali di rabbia e di dolore. Sul palco sale il Capo dello Stato Sandro Pertini, seguito dal segretario del Pci Enrico Berlinguer. Poi ci sono il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e la presidente della Camera Nilde Jotti.

Dietro di loro, pallidi in volto, sono schierati i ministri della Repubblica. Toghe eccellentissime, presidenti di corte di appello e procuratori generali. Sembrano mummie. E tutti i capi storici del Pci. In fondo al palco c’è anche Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale. Il presidente del Consiglio e il ministro degli Interni Virginio Rognoni gli hanno chiesto di insediarsi come prefetto di Palermo una settimana prima della data prevista. Pio La Torre è morto. Davanti alla folla c’è Mario D’Acquisto, il presidente della Regione Siciliana, un maggiordomo di Salvo Lima. Fa tutto quello che il capo gli dice di fare.

Il presidente D’Acquisto si avvicina al microfono, la piazza esplode. Urla: «Lima, D’Acquisto, Ciancimino, chi di voi è l’assassino?». Poi sul palco avanza un altro grande vecchio di una Sicilia in putrefazione, Salvatore Totò Lauricella, presidente del parlamento regionale e, anni prima, potentissimo ministro socialista dei Lavori Pubblici. In migliaia tirano fuori dalle tasche banconote da mille lire. Le sventolano sotto il palco, gridano: «To-tò car-ta-da-mil-le, To-tò-car-ta-da-mil-le…».

Sono sudato, stravolto, impaurito. L’Internazionale e L’inno alla gioia di Beethoven, la ressa, le urla. Sventolo anch’io una banconota da mille lire, come tutti gli altri. «Non dovevi farlo, un giornalista è un giornalista e non partecipa mai», mi rimprovera il direttore Nicola Cattedra quando torno in redazione. «E poi c’erano anche brave persone là sopra, sul palco», mi sussurra uno dei notisti politici che passa le sue giornate a strusciarsi con i potenti del parlamento siciliano. Mi sto zitto. Ho ventisette anni e faccio il giornalista solo da quattro. Non so niente, lui sa tutto. Forse anche troppo.

La piazza è ostile. C’è molta sofferenza e tanta paura. Enrico Berlinguer comincia a parlare, lentamente: «Siamo qui a rivolgere l’ultimo saluto al compagno Pio la Torre e al compagno Rosario Di Salvo…». Ripercorre la storia di un eroe contadino e dell’amico fedele che l’ha accompagnato sino alla fine: «Rosario era mosso da un’assoluta fedeltà al partito, con una soddisfazione che lo ripagava delle pene e dei rischi che egli valutava bene, come dimostra il fatto che ha estratto la sua pistola ed ha sparato cinque colpi, che forse hanno ferito uno dei killer». È in quel momento, quando Berlinguer svela quel particolare sulla Smith and Wesson di Rosario che ha fatto fuoco, che la piazza esplode un’altra volta. Un applauso liberatorio. E lacrime. Piangono in migliaia a Palermo, quel mezzogiorno del 2 maggio 1982. Piange anche Rosolino Cottone, nome di battaglia «Esempio».

La storia di Rosolino Cottone

Mi chiamo Rosolino Cottone, di Palermo, ho 80 anni. Ho fatto il partigiano nella guerra di liberazione sull’Appennino tosco-emiliano con la 31° Brigata Garibaldi. Per quell’esperienza mi hanno fatto fare la guardia del corpo prima a Li Causi e poi a La Torre… Con Pio abbiamo cresciuto insieme. Io gli andavo sempre dietro. Ero armato, certo, ma l’arma non me la vedevano mai. Con La Torre eravamo due fratelli. Lui era uguale a noi, era un combattente.

Poi io sono diventato anziano. La cosa che più ricordo di lui quella mattina a Palermo, che lui non si meritava di morire. In che senso mi ricordo? L’autista di La Torre si chiamava Di Salvo, e a lui non ci arrivò nella mente che quando camminava con la macchina, quella mattina un’altra macchina ci andava dietro. La Torre abitava in corso Pisani e la sera prima mi dice a me: “Cottone, mi raccomando, domani mattina verso le 8 a casa mia”. Alle 8 ero lì, ma che ne sapevamo che gli assassini erano già lì anche loro? Erano giù. In casa La Torre dice a Di Salvo: “Fai il caffè a Rosolino, che deve andarmi a fare delle commissioni”.

Io ho preso il caffè e sono andato. Arrivo in federazione verso le nove e mezzo e il portiere appena mi vede mi urla: “Cottone! Ammazzarono a La Torre e a Di Salvo”. “Ma cosa dici?”, urlai io, ma corsi via come un dannato, la polizia cercò di bloccarmi, ma urlavo dalla rabbia e mi fecero passare e arrivai alla macchina tutta insanguinata. La Torre è sepolto qui, ai Cappuccini. Si può entrare ai Cappuccini, sulla lapide c’è scritto il suo nome. Era un bravissimo compagno, duro e forte. Mi dice a me, eravamo a Comiso, la mattina del grande comizio.

C’erano tanti contadini, tanti operai venuti a Comiso per il discorso di La Torre, erano più di cinquemila anche dai paesi attorno. Allora La Torre mi dice a me: “Comandante ma pecché sono accussì poco?”, così mi parlava, e io gli faccio: “Scusa La Torre, sono più di cinquemila. Tu quanti ne vuoi?”, ci faccio io a lui. Non si contentava mai, voleva sempre di più nella lotta popolare.

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