Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.


Ricorderà così i mesi passati all’Ucciardone: «Accadeva che mentre imperversava la repressione poliziesca contro il movimento contadino, la segreteria regionale prendeva provvedimenti disciplinari contro De Pasquale. Era passata, in qualche misura, la tesi di Armando Fedeli che aveva condotto l’inchiesta. Dopo l’allontanamento del segretario di Palermo, andava dicendo che noi giovani, che eravamo stati collegati con De Pasquale, non avevamo più avvenire nel partito. Una sera egli disse a mia moglie che era bene che utilizzassi la mia permanenza in carcere per prepararmi alla laurea, poiché la mia prospettiva nel partito era incerta. Dopo l’arresto e la destituzione di De Pasquale, si verificò la dispersione di gran parte dei giovani quadri emersi nel corso della lotta e la federazione palermitana attraversò un periodo di seria difficoltà. Una delle conseguenze fu che noi detenuti restammo, di fatto per lunghi mesi, privi di qualsiasi assistenza. Meno male che mio suocero provvedeva al sostentamento della figlia che attendeva un bambino. La famiglia di mia moglie, inoltre, si preoccupava di farmi pervenire qualche cosa anche in carcere. Non ricevevo quasi nulla invece dalla famiglia di mio padre. Mia madre si era ammalata seriamente e morì mentre io ero in carcere».

Alla fine del 1950 Palmiro Togliatti nomina Paolo Bufalini vicesegretario regionale del partito in Sicilia. Di fatto, il Pci dell’isola viene commissariato. E la linea «corretta». Solo allora, a Palermo, comincia la mobilitazione per far uscire Pio La Torre dal carcere.

Con i ceppi ai polsi, compare una mattina in uno stanzone dello Steri, l’antico palazzo dell’Inquisizione di piazza Marina. Si celebra il processo per i «disordini» nel feudo di Santa Maria del Bosco. La prima di dieci lunghissime udienze. In cella La Torre studia, cambia facoltà, comincia a preparare esami per laurearsi in Scienze Politiche. È sempre un detenuto in attesa di giudizio.

I suoi avvocati ne chiedono la scarcerazione, i magistrati della procura della repubblica di Palermo gliela negano. La concedono però in quei giorni a tre mafiosi della borgata di Resuttana, accusati di omicidio ed estorsione. I boss escono dalla settima sezione e sulla via di casa vengono massacrati dalla lupara. In Sicilia, l’altra giustizia non perdona.

Il sostituto procuratore generale Pietro Scaglione – sarà ucciso dalla mafia nel 1971 – vieta a Pio la Torre un secondo colloquio con la moglie Giuseppina «per il carattere politico del processo». Deve restare in isolamento.

Durante le ultime udienze, quando cominciano ad affiorare le false testimonianze dei poliziotti che l’hanno accusato, Pio La Torre viene assolto «in ordine al delitto di lesione in offesa del tenente Caserta e altri» ma condannato a 4 mesi e 15 giorni di reclusione per l’occupazione del feudo del barone Inglese.

È all’Ucciardone già da un anno e mezzo, ha scontato la sua pena per quattro volte. Il 23 agosto del 1951 torna libero. Il carcere non lo dimenticherà mai. Gli resterà per tutta la vita quell’abitudine presa nei diciotto mesi trascorsi in una cella di due metri e mezzo per due: camminare nervosamente avanti e indietro, due passi e mezzo avanti, altri due passi e mezzo indietro. Farà sempre così anche nelle burrascose riunioni di partito, fra le stanze piene di fumo della Federazione di Palermo in fondo a corso Calatafimi.

Due passi e mezzo avanti e due passi e mezzo indietro. Come un leone in gabbia.

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