Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie si focalizza sulle storie di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Sui delitti e sulle stragi di trenta e quarant'anni, che hanno sconquassato la Sicilia.

In Commissione Antimafia Pio La Torre è un trascinatore. Racconta cos’è la sua Sicilia, spiega la mafia ai compagni di partito e ai deputati del Nord. Non ha bisogno di ricordarlo ai democristiani di Sicilia. Loro la conoscono bene. Scelgono per quella Commissione Giovanni Matta, uomo di fiducia di Salvo Lima ed ex assessore comunale a Palermo.

Matta comincia la sua carriera politica proprio all’assessorato all’Edilizia e alle dipendenze dirette di Salvino, come si rivolgono a lui gli intimi. Tutti i commissari della sinistra, comunisti e socialisti, si dimettono in massa su proposta di Pio La Torre. È uno scandalo. Il caso finisce sulle prime pagine dei giornali nazionali.

La Commissione si scioglie. Pio La Torre agli inizi degli Anni Settanta vince la sua prima battaglia in Parlamento. È un lottatore ma è pragmatico, onesto, sa bene che non tutta la Dc siciliana è collusa con il potere mafioso. Lui distingue, ragiona, guarda «a quella parte del gruppo dirigente democristiano che sta tentando di avviare nell’isola un processo di risanamento della vita pubblica».

Quando è in Antimafia, ritrova fra gli atti anche tutti i rapporti e le relazioni richieste dai commissari al comandante della Legione dei carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa. Sulla mafia dentro alla Democrazia Cristiana e sulla mafia di Corleone. Fra la Sicilia e Roma ci sono uomini che s’incontrano sempre, che si allontanano e poi si ritrovano ancora.

Le esistenze di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa e di Cesare Terranova tornano a intrecciarsi. Il giudice istruttore che ha portato alla sbarra i Corleonesi alla fine degli Anni Cinquanta – proprio quando La Torre è sindacalista in paese e alla caserma di Corleone c’è il capitano dalla Chiesa – nel 1976 è anche lui a Roma come parlamentare, eletto fra gli «indipendenti» nelle liste del Pci. E anche lui è in Commissione Antimafia. Accanto al suo amico Pio La Torre. Tutti e tre stanno per tornare a Palermo. Loro non lo sanno ancora, ma per la Sicilia si annunciano anni spaventosi.

Le vecchie istruttorie di Terranova, quella contro la mafia di Palermo e quella contro la mafia di Corleone, si sono concluse intanto con scarcerazioni di massa. Il processo dei «114» (ai Bontate, ai Manzella, agli Gnoffo) e il processo ai «64» (a Luciano Liggio, a Salvatore Riina, a Bernardo Provenzano), vengono celebrati fra il 1968 e il 1969 lontano dalla Sicilia, a Catanzaro e a Bari, per legitima suspicione – legittimo sospetto – e finiscono fra brindisi e festeggiamenti per gli imputati. Più che Corti di Assise sembrano corti dei miracoli. Giudicano ardite se non addirittura «fantasiose» le tesi accusatorie del giudice Terranova, che descrive la mafia «come un’associazione criminale e non come uno stato d’animo».

La formula di assoluzione per i mafiosi è sempre la stessa: insufficienza di prove. Escono tutti. E si riprendono Palermo e la Sicilia. Ma dentro le «famiglie» qualcuno inizia a sentire puzza di bruciato, a fiutare i segni di una tempesta imminente. Alcuni boss tremano.

Uno di loro è Giuseppe Di Cristina, mafioso della vecchia guardia che fra i suoi testimoni di nozze ha voluto anche il senatore della Dc Graziano Verzotto. Giuseppe Di Cristina è di Riesi, un paese costruito fra le pirrere, le zolfare intorno a Caltanissetta, miniere nel ventre delle montagne della Sicilia interna.

I Di Cristina

È un mafioso che ha paura di morire. E così nel 1978 diventa un boss «canterino». Incontra in un casolare un capitano dei carabinieri, gli racconta che i Corleonesi stanno assaltando la mafia di Palermo e lo Stato. Dice: «Salvatore Riina e Bernardo Provenzano sono due belve, dovete fermarli. Non sono pericolosi solo per noi, sono pericolosi soprattutto per voi».

Dice ancora: «C’è un piano per uccidere il giudice Terranova. Vogliono ammazzarlo e accollarmi la sua morte, vogliono far credere che sono stato io per vendicarmi di lui perché mi ha inquisito per un delitto. Quelli sono dei tragediatori, i Corleonesi sono le persone più abiette al mondo». Le confidenze di Giuseppe Di Cristina finiscono in un rapporto dell’Arma che, per più di un anno, marcirà in un cassetto della procura della repubblica di Palermo. Dopo pochi mesi dall’incontro con il capitano, il boss muore. Ammazzato. Tutto come previsto.

Nelle informative di polizia e negli atti giudiziari dove c’è il suo nome, viene indicato come il grande capo della mafia di Caltanissetta. Ma chi, come me, vive al centro della Sicilia, lo sa che il vero capo non è lui. Non è Giuseppe Di Cristina. È suo fratello Antonio. I Di Cristina, li ho conosciuti da ragazzino. Giuseppe, prima di trovare un posto come cassiere alla Sochimisi – la Società Chimica Mineraria Siciliana – è impiegato alla Cassa di Risparmio di Caltanissetta, la mia città. Me lo ricordo dietro lo sportello, sempre vestito di nero, una giacca di pelle, la fronte sporgente, il naso grosso, i capelli pettinati all’indietro.

Ogni tanto vado a trovare una mia zia che lavora in banca e incontro lui. Ma già allora tutti sono a conoscenza che la «mente» della famiglia è l’altro, Antonio, ex sindaco di Riesi e vicesegretario provinciale della Democrazia cristiana. Antonio è incensurato, a Caltanissetta lo chiamano «il professore». Chissà se è pigrizia investigativa o c’è dell’altro, ma Antonio Di Cristina nessuno lo menziona mai quando si parla di mafia e di mafiosi.

Il 30 maggio del 1978 uccidono Giuseppe, a Palermo. Antonio vuole presentarsi alle elezioni regionali. I boss del partito gli dicono che è meglio di no, è più prudente che si faccia da parte. Nove anni dopo l’agguato a Giuseppe, nel settembre del 1987 uccidono anche Antonio. Passa un po’ di tempo e tendono un’imboscata anche a un terzo fratello, Angelino. Gli scaricano contro una ventina di pallottole, cinque gli rimangono nella testa.

Con i proiettili nel cranio, immobilizzato, ogni mattina lo trasportano alla scuola media di Riesi dove insegna Lettere. Parla a stento, non si può muovere, ha perso la memoria. Ma è titolare di cattedra. L’ultimo fratello, Totò, per trent’anni lavora come impiegato al Banco di Sicilia. È fuori da tutti gli affari della «famiglia», è una pecora nera: una brava persona. Per paura di possibili vendette un giorno si compra una pistola. Ma non avrà mai occasione di usarla.

Dopo Giuseppe Di Cristina muore anche il giudice Cesare Terranova. Nel giorno del suo insediamento come consigliere istruttore al Tribunale di Palermo, la mattina del 25 settembre 1979. Con lui c’è il suo fedele collaboratore, il poliziotto Lenin Mancuso.U

n agguato sotto casa. Winchester e 357 Magnum. I Corleonesi. Fa paura il ritorno del giudice istruttore che ha portato alla sbarra Luciano Liggio e Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Fa paura anche il ritorno di Pio La Torre.

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