Ci si rivede d’inverno. Abbiamo appena messo alle spalle la stranezza dell’Europeo policentrico che già dobbiamo allenarci mentalmente al Mondiale fuori stagione. La prossima tappa di una fase finale di un torneo calcistico per nazioni, i Mondiali di Qatar 2022, è in calendario tra il 21 novembre e il 18 dicembre. Una cosa mai accaduta e che chissà se si ripeterà.

Dunque bisognerà attrezzarsi mentalmente. Perché se l’Europeo policentrico ha avuto impatto soltanto sui tifosi che seguono le nazionali ovunque si spostino, il Mondiale invernale ha impatto sulle abitudini di tutti, indistintamente. E una finale dei Mondiali che si gioca a una settimana esatta dal giorno di Natale è qualcosa che proprio non si riesce a immaginare. Ci si dovrà soltanto passare dentro e vedere che effetto fa.

Viziati del calcio

Certo, da questo punto di vista, noi europei siamo viziati. Le grandi manifestazioni calcistiche sono sempre state organizzate privilegiando scelte di calendario allineate coi nostri tempi stagionali. Dunque tarate sulla tempistica giugno-luglio, quella parte dell’anno che dalla tarda primavera scivola nella piena estate e aggiunge un tocco vacanziero alle grandi competizioni calcistiche.

Come se alla festa del calcio dovesse aggiungersi l’atmosfera da vacanza o pre-vacanza. Europei e Mondiali quando già si va al mare o in qualsiasi altra meta di villeggiatura, il loro atto finale quando già qualcuno è in ferie e tutti gli altri si apprestano a andarci. Siamo stati talmente abituati a questo eurocentrismo astronomico da darlo come cosa scontata. E a rafforzare questa presunzione hanno contribuito nel corso del tempo i casi di eclatante pressione sulla scelta dei calendari e degli orari.

Per esempio le finali di Messico 86 e Usa 94 giocate a mezzogiorno, con temperature proibitive, soltanto perché bisognava andare in onda nella fascia televisiva di prima serata in Europa. Ma anche, menzionando ancora una volta Messico 86, la scelta di giocare a giugno anziché prima, nonostante gli organizzatori locali avvisassero che inoltrandosi oltre maggio vi fosse il rischio di andare incontro alla stagione delle piogge. Un ammonimento che puntualmente si verificò in occasione della gara fra Bulgaria e Corea del Sud (del girone in cui erano state sorteggiate anche Italia e Argentina, terminò 1-1), giocata il 5 giugno allo stadio olimpico universitario di Città del Messico. Impianto carico di storia e fascino, ma con un grave limite: è totalmente scoperto.

Sicché quando nel pieno della gara si scatenò un nubifragio, lo spettacolo della fungaia di ombrelli sugli spalti come se si fosse in uno stadio di Serie D, ma soprattutto il primo piano trasmesso in mondovisione della ragazza cui battevano i denti per il freddo, misero in ridicolo la Fifa. Che proprio in conseguenza di quell’episodio volle solo stadi totalmente coperti per le successive edizioni dei Mondiali. Qualsiasi cosa, pur di non mettere in discussione il potere economico dei paesi e dei mercati televisivi che allora dettavano legge. Allora, appunto.

Il nuovo potere economico

Nel frattempo le cose sono cambiate. L’ingresso nel calcio dei fondi sovrani della penisola araba, oltre a determinare una lenta colonizzazione del calcio europeo (con club schizzati improvvisamente dalla mediocrità nazionale alla potenza globale), ha spostato l’asse del potere economico e finanziario. Ma anche i poteri e le catene di distribuzione mediali si sono spostati da quelle parti. E dunque ecco che non soltanto si presenta per la prima volta l’occasione di avere un Mondiale ospitato da un emirato, ma c’è anche la necessità di farlo celebrare in pieno inverno perché in estate le temperature, da quelle parti, sarebbero a rischio per la salute dei calciatori. Giocare a Doha in luglio, magari alle cinque della sera, sarebbe roba da fachiri.

Non si poteva fare altro che ridisegnare il calendario, a meno di non voler stabilire in modo definitivo che a certo paesi regolarmente affiliati alla Fifa si dovesse negare per sempre l’organizzazione di un Mondiale per ragioni geografiche. Ci toccherà cambiare abitudini e mentalità, seguire i Mondiali nel pieno dell’annata lavorativo e con l’approssimarsi delle feste di fine anno.

Dovremo cambiare, perché nel frattempo è cambiato il mondo. E noi europei non siamo più il suo centro. In fondo un po’ di sana provincializzazione potrebbe far bene. E ancora una volta serviva il pallone, con la sua straordinaria potenza simbolica, per farcene rendere conto.

© Riproduzione riservata