Il limite più grande di tutti noi romani è scoprire un giorno qualsiasi che, fuori da Roma, esiste la vita e si ha anche l’acqua corrente. I miei concittadini conoscono perfettamente quella sensazione di stupore che ci investe quando – malauguratamente – ci accorgiamo che le persone vivono, lavorano e lottano insieme a noi anche senza vivere a Roma.

Lo stesso stupore che proviamo quando, alcune volte, noi stessi siamo costretti ad ammettere che vivremmo meglio in altri posti. Per esempio dove la qualità della viabilità e dei trasporti pubblici è anche solo leggermente superiore a quella di qualsiasi megalopoli subsaariana. Ma questo pensiero dura veramente molto poco.

Si sa che l’egocentrismo del romano medio porta ad affermare, per esempio sorseggiando bollicine in Valpolicella: «Ti credo che è bello qua in Veneto, del resto questa era Roma nel 476 d.C., Romolo Augusto deposto da Odoacre purtroppo», tipo mantra.

Ma quando un giorno qualunque nel 2016, in una scuola di cucina a Brescia, la romana media (che sarei io) è invitata a un incontro con l’inventore della carbonara, Renato Gualandi, il quale apre bocca e parla con accento del nord, credetemi: non basta dire che Bologna un tempo era Roma, quindi lui alla fine è un po’ romano, che tutto era Roma e che non avrai altro Dio all’infuori di Roma, bisogna essere forti.

In particolare il romano medio, che sarei sempre io, si deve confrontare con una storia molto meno romantica di quello che immaginiamo. Ovvero sapere e accettare – anche mentre facciamo gli speciali su Instagram dicendo «ma quella è pancetta, che orrore» - che la precorritrice della carbonara così come la intendiamo noi (guanciale, tuorlo, pecorino e pepe) era una pasta a base di tuorlo liofilizzato, crema di latte e bacon.

La razione K

Tutti questi ingredienti costituivano parte della razione K, cibo a disposizione degli alleati americani e che Gualandi per la prima volta nel 1944 mise insieme, aggiungendo il pepe, in una cena improvvisata – svuota frigo oserei dire - per l’armata inglese che incontrava l’armata americana, in occasione della liberazione di Riccione.

Dopo questo evento, lo chef Gualandi diventò cuoco ufficiale delle truppe americane a Roma fino al 1945, periodo in cui, in una Capitale martoriata dalla guerra, non c’era una grande disponibilità di cibo. Allora gli americani erano così gentili da mettere a disposizione della città parte della loro Razione K e mettendo in condizioni Roma di appropriarsene per sempre, sostituendo il bacon con il guanciale.

Ora, questa è una delle storie più accreditate sulla nascita della carbonara: ce ne sono molte altre e, anche le altre, non prevedono Roma come protagonista indiscussa. 

Da romani questo ci dispiace, ma non ci impedisce di essere diventati quelli che la fanno meglio, da bravi coatti quali siamo.

Gli ingredienti comunque facevano parte all’epoca delle pietanze tipiche della cosiddetta linea Reinhard, una linea immaginaria che passava dal Molise, all’Abruzzo fino ad arrivare in Campania, istituita dai nazisti per bloccare gli alleati. Gli alleati certo, ma non il guanciale.

Le verità sono sempre molte e quindi, per quanto tutti noi sentiamo sempre la necessità di averne solo una e crederci ciecamente, la carbonara potrebbe essere frutto di un percorso al quale hanno contribuito tutti: americani, napoletani, abruzzesi, molisani eccetera.

Così la carbonara diventa l’esempio perfetto per recepire una volta per tutte che la verità, ma anche la ricerca spasmodica della verità, è veramente molto sopravvalutata e che nella bugia a volte si vive benissimo e si mangia ancora meglio.

La ricetta

Per il Carbonara day vi fornirei intanto le regole di base della carbonara:

  • un tuorlo a testa e uno per la pentola
  • Vogliamo una crema d’uovo, non una frittata di pasta col guanciale
  • Sotto i 150 g di pasta a testa non ci può essere carbonara
  • Il pepe deve essere macinato al momento
  • Con l’albume ci fate le meringhe
  • L’utilizzo della panna è una sconfitta
  • La pancetta affumicata solo se state a Detroit.

Ingredienti per due persone:

  • 300 g di pasta, rigorosamente o mezze maniche o spaghetti quadrati
  • 3 tuorli d’uovo
  • 150 g di guanciale
  • 80 g di pecorino romano
  • Pepe macinato al momento

Procedimento:

  • Mettete a bollire l’acqua, non la salate troppo altrimenti vi sale la pressione e la fate salire anche a me dai nervi
  • Versate in una ciotola i tuorli con il pecorino e un po’ di pepe e fate amalgamare gli ingredienti, deve venire fuori una pastella quasi solida, non una brodaglia, grazie
  • In una padella antiaderente fate rosolare il guanciale tagliato a cubetti, anche se io preferisco a “petali”
  • A circa 3 minuti dal tempo di cottura indicato sul pacco di pasta scolatela, ricordandovi di tenere da parte almeno due tazze di acqua di cottura
  • Versate la pasta nella padella contenente il guanciale, se lo avete rosolato bene e per bene - intendo che sia croccante, non quella Big babol che vi piace tanto presentare – l guanciale non diventerà molle. Fate saltare la pasta per circa 30 secondi
  • Iniziate ad aggiungere gradualmente l’acqua di cottura, girando sempre con forza la pasta, in modo che venga rilasciato l’amido e si crei, insieme all’acqua, la cremina, unica vostra salvezza da una frittata di pasta
  • Quando siete soddisfatti della quantità di cremina di amido creata togliete dal fuoco la padella e versate la pastella di uova, pecorino e pepe, girando sempre vigorosamente per qualche secondo
  • Aggiustate di pepe.

Grazie americani per averci liberato, vi dobbiamo tanto, ma soprattutto vi dobbiamo quella consapevolezza che fuori da Roma esiste qualcosa.

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