Nonostante condanne e risarcimenti milionari, l’edificio resta occupato dal 2003: grazie a conteziosi, vincoli sociali e prudenza istituzionale. La storia di un abuso decennale perfettamente riuscito
Lo sgombero del Leoncavallo a Milano, simbolo di cultura e resistenza sociale per oltre cinquant’anni, ha riacceso i riflettori sul fenomeno delle occupazioni urbane. Ma a Roma, la sede di CasaPound resiste immutata.
Sono passati 22 anni e i militanti del movimento neofascista sono ancora lì. «Non è che i fascisti siano tornati. Non se ne sono mai andati da qui», sorride un signore del quartiere, accanto al grande portone di legno del civico 8 di via Napoleone III, a pochi passi dalla stazione Termini.
La sede è viva. Camerati la abitano, organizzano conferenze e dibattiti. Il 7 gennaio si è tenuto il secondo consiglio nazionale di CasaPound Italia, con la partecipazione dei vertici nazionali e regionali del movimento. Nonostante il 27 giugno 2023, un giudice di Roma abbia emesso 10 condanne a 2 anni e 2 mesi per occupazione abusiva, infliggendo una provvisionale immediatamente esecutiva di 20mila euro a ciascun imputato e ordinando il risarcimento del Demanio, proprietario dell’immobile. Tra i condannati per occupazione abusiva aggravata ci sono Gianluca Iannone, Simone Di Stefano (non più nel movimento) e il fratello Davide. Il danno erariale stimato finora è di 4,5 milioni di euro. Nonostante tutto, lo sgombero non è mai stato eseguito.
Storia di un’occupazione
L’edificio, di proprietà pubblica, ospitava fino al 2003 gli uffici del ministero dell’Istruzione. Il 27 dicembre di quell’anno fu occupato da militanti neofascisti, trasformando gli ex uffici in appartamenti e installando un’insegna sulla facciata, rimossa solo nel 2019 dall’allora sindaca Virginia Raggi. Nel corso degli anni, le responsabilità sono rimbalzate tra ministero dell’Istruzione, Demanio e Comune di Roma. Tentativi di cessione e accordi tra enti pubblici sono naufragati tra polemiche politiche e contenziosi giudiziari, lasciando lo stabile nelle mani dei militanti.
Il palazzo di via Napoleone III, soprannominato dai militanti “Grand Hotel CasaPound”, si trova nel cuore del quartiere multietnico dell’Esquilino. Sessanta vani, almeno venti appartamenti, una sala per conferenze all’ultimo piano, terrazza panoramica. Sul mercato, un appartamento con due camere in quella zona supererebbe i 2.000 euro al mese. Il valore totale dell’immobile, considerando anche gli spazi per le attività politiche, supera i 300mila euro l’anno, più di quattro milioni negli ultimi quattordici anni.
Nel 2016, quando alla guida della Capitale è arrivato il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca, l’immobile è stato di nuovo inserito tra quelli da sgomberare. Si trova ancora lì, nell’elenco che hanno tra le mani il prefetto Lamberto Giannini e il ministro Matteo Piantedosi. Non risulta al momento nessun censimento delle persone che vivono in via Napoleone III; nessuna verifica sullo stato di necessità o vulnerabilità sociale, passaggio che normalmente precede uno sgombero secondo le direttive ministeriali. «Alcuni sono vertici del movimento. Ma non sappiamo se ci siano famiglie vulnerabili», confida un funzionario capitolino. L’edificio appare come un’isola intoccabile.
Il problema dello sgombero è complesso. Il ministero dell’Interno è responsabile di fornire la forza pubblica per gli sgomberi di immobili occupati abusivamente. Spesso però non può intervenire subito per motivi di ordine pubblico o per evitare tensioni sociali. In questi casi, lo Stato deve comunque risarcire il proprietario dell’immobile, poiché il bene resta occupato abusivamente, esponendo il ministero a possibili contestazioni di danno erariale. I tribunali hanno stabilito che prima di uno sgombero è necessario garantire soluzioni abitative a soggetti vulnerabili come famiglie con minori o persone anziane. Qui entrano in gioco i Comuni, responsabili delle politiche abitative, che devono indicare disponibilità di case. Un nervo scoperto: spesso le case sono poche e devono rispettare le graduatorie per gli assegnatari.
«Conseguenze sullo Spin Time»
La giunta Gualtieri è particolarmente cauta. Una prudenza che porta il nome dello “Spin Time”, occupazione culturale e sociale in via Santa Croce in Gerusalemme, che offre a 400 persone di 26 nazionalità diverse accoglienza e integrazione. «Se facessimo sgomberare CasaPound, si rischia di colpire Spin Time. Aprire un fronte con i neofascisti potrebbe avere conseguenze anche lì», confida un funzionario comunale. L’emergenza abitativa di Spin Time è reale e delicata: trovare soluzioni per loro è molto più complesso che liberare “l’hotel” dei vertici di un movimento neofascista.
La sensibilità istituzionale sul tema è alta. Lo scorso anno, durante il decimo anniversario del primo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari, Papa Francesco ha accolto a Trastevere proprio la comunità di Spin Time. Una benedizione simbolica che ha reso ancora più evidente l’attenzione alla loro funzione sociale e culturale.
Il Grand Hotel CasaPound resta, dunque, un caso unico di come il sistema pubblico e giudiziario italiano gestisca, o non gestisca, le occupazioni: abusivo, simbolico, inviolabile dovuto a un intreccio di responsabilità istituzionali.
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