Durigon alla fine si è dimesso. La notizia inizia a circolare intorno alle 20.30, poi poco più tardi arriva una lettera sterminata a sua firma in cui spiega le ragioni del passo indietro. Nella missiva accusa anche i giornali che hanno raccontato dei rapporti con uomini dei clan, «hanno rovistato nella spazzatura al solo scopo di infangarmi», ha scritto l’ormai ex sottosegretario Durigon, difeso dal leader da una raffica di richieste di dimissioni per le sparate su Mussolini, ma anche per le relazioni emerse con personaggi legati ai clan di Latina. Qui, nel capoluogo pontino, Durigon ha il suo centro di potere, costruito grazie al ruolo di vertice ricoperto nel sindacato di destra Ugl. E sempre qui ha instaurato rapporti pericolosi maturati durante l’ultima campagna elettorale per le politiche del 2018, quando a sostenere il futuro sottosegretario e il partito sono stati due personaggi legati ai clan di Latina, in particolare al gruppo Di Silvio. Su questo Salvini non ha speso una sola parola di condanna. Durigon non è indagato, al leader questo basta per tacere sull’inopportunità di certe amicizie. Dopo la pubblicazione della foto che ritraeva Durigon e uno degli uomini in contatto con gli ambienti criminali, durante un pranzo alla conclusione della campagna elettorale, sono intervenuti invece gli esponenti del Pd e di Sinistra Italiana. «Durigon si deve dimettere: un esponente del governo non può avere relazioni di questo genere» ha detto il deputato del Pd Enrico Borghi, dopo aver visto la foto pubblicata da Domani del pranzo tra Durigon e Natan Altomare, l’uomo vicino ai clan e accusato di sequestro di persona. Secondo Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana, le cene elettorali organizzate da Altomare «devono fare riflettere su come si costruiscono i rapporti politici, su come si raccolgono i voti, e come funziona il finanziamento». Altomare, come raccontato da Domani, ha rivelato che in cambio dell’appoggio alle elezioni avrebbe ottenuto da Durigon una promessa di un incarico nella sanità regionale. Il sottosegretario, quando è stato contattato, non ha risposto alle nostre domande.

La lettera dell’ormai ex sottosegretario con cui annuncia le dimissioni

di Claudio Durigon

Un processo di comunicazione si valuta non in base alle intenzioni di chi comunica, ma al risultato ottenuto su chi riceve il messaggio: è chiaro che, nella mia proposta toponomastica sul parco comunale di Latina, pur in assoluta buona fede, ho commesso degli errori. Di questo mi dispiaccio e, pronto a pagarne il prezzo, soprattutto mi scuso. Mi dispiace che mi sia stata attribuita un’identità “fascista”, nella quale non mi riconosco in alcun modo. Non sono, e non sono mai stato, fascista. E, più in generale, sono e sarò sempre contro ogni dittatura e ogni ideologia totalitaria, di destra o di sinistra: sono cresciuto in una famiglia che aveva come bussola i valori cristiani.

Mi dispiace soprattutto che le mie parole, peraltro lette e interpretate frettolosamente e superficialmente, abbiano potuto portare qualcuno a insinuare che per me la lotta alla mafia non sia importante. È infatti vero esattamente il contrario: la legalità, e il contrasto alle organizzazioni criminali, sono per me dei valori assoluti, nei quali credo profondamente. Per questo, anche se le mie intenzioni erano di segno opposto, mi scuso con quanti, vittime di mafia (o parenti di vittime di mafia), possono essere rimasti feriti dalle mie parole. O, per essere più precisi, da una certa interpretazione che è stata data alle mie parole. E sottolineo che le mie scuse in questo senso, in particolare alle famiglie Falcone e Borsellino, e a quelle degli agenti di scorta caduti insieme a loro, sono sentite e profonde (come sentita e profonda è, per me, la convinzione nel valore della legalità). È per questo che mi indigna veramente il fatto che qualcuno, forzando il senso delle mie parole, mi abbia accusato di mancanza di rispetto e di ingratitudine nei confronti dei giudici Falcone e Borsellino. Che invece, per me (e per moltissimi della mia generazione), sono non solo due figure eroiche, ma anche dei modelli di etica, di civismo, di senso dello Stato.

Anche per questo, sono disgustato da alcuni media che mi hanno addirittura accostato ai clan rovistando nella spazzatura al solo scopo di infangarmi.

Detto questo, colgo l’occasione per precisare una volta per tutte il senso delle mie parole. Come indica chiaramente il mio cognome, io sono figlio, e nipote, di veneti immigrati, tanto tempo fa, nel Lazio e in particolare in quel dell’attuale Latina. Sono dunque nipote di “coloni”, italiani di tutta Italia che hanno partecipato a una grande opera, civica e civile al tempo stesso, di recupero di un territorio del nostro Paese che fu, per troppo tempo, svantaggiato e inabitabile. Mi riferisco alla bonifica dell’Agro Pontino.

Stiamo parlando del recupero di un’area con una superficie di circa 75.000 ettari, che per secoli è stata flagellata dalla malaria. Il progetto di recupero e valorizzazione fu un’opera immensa: dal 1926 al 1937, per bonificare le paludi dell’Agro, furono impiegate ben 18.548.000 giornate-operaio, con il lavoro di circa cinquantamila operai, provenienti da tutto il Paese. Estirpata la malaria e recuperato il territorio, a seguire sorsero nuove città, di cui la prima fu, nel 1932, l’attuale Latina (all’epoca chiamata Littoria). Che, anche in seguito alla seconda immigrazione (post-bellica), negli anni Settanta, che vide come protagonisti nostri concittadini provenienti soprattutto dall’Italia centrale e meridionale, divennero straordinari luoghi di incontro e di integrazione fra culture, modi di vivere, dialetti, tradizioni, molto differenti fra loro. Tutto ciò ha fatto, dell’Agro Pontino, un vero e proprio caso di studio demografico e sociologico nazionale.

Nella mia mal formulata proposta, io avevo a cuore solo l’idea di ricordare questa storia così intensa e così particolare, e ancora oggi così sentita nella zona di cui sto parlando (anche se mi rendo conto che essa è difficile da comprendere, e soprattutto da “sentire”, per un qualsiasi cittadino italiano che non sia di quella zona). E, soprattutto, non ho mai chiesto “l’intitolazione del parco al fratello di Mussolini”, come hanno riferito alcuni titoli di giornale, bensì semplicemente il ripristino del suo nome originario. Il nome “Arnaldo Mussolini” venne infatti scelto dai coloni e per decenni è rimasto tale, nonostante il susseguirsi dei sindaci e delle giunte. E fa parte della memoria della città. Dunque, io non ho mai inteso né accostare i nomi dei giudici Falcone e Borsellino a quello del fratello di Mussolini né - tantomeno - fare un assurdo confronto fra loro. Sostenere il contrario, come è stato fatto sulle mie parole, è una forzatura bella e buona.

Perciò, al di là dei miei errori di comunicazione (nella forma), nella sostanza sono stato strumentalmente attaccato per aver proposto di salvare la memoria storica di cui sopra. Sono stato attaccato per il fatto di voler ricordare lo sforzo e l’impegno di così tanti italiani. A prescindere dal nome specifico di Arnaldo Mussolini, perché ciò che a me sta veramente a cuore, come nipote di “coloni”, è solo di ricordare quella storia collettiva di impegno e sacrificio. La mia vera colpa è che non mi dimentico di essere “figlio” della bonifica pontina. Tutto, in quelle terre, rimanda a una storia che invece un certo tipo di “politicamente corretto” vorrebbe rimuovere per sempre.

Così, ho dovuto constatare sulla mia pelle, con grande amarezza, che esistono professionisti della strumentalizzazione che hanno usato le mie parole per attribuirmi a tutti i costi un’etichetta che non mi appartiene, con l’unico fine di colpire me e il partito che rappresento. Si tratta di un’operazione che, come detto, mi ferisce profondamente e che non posso più tollerare. Aggiungo che tutta questa polemica sta diventando l’alibi di chi, in malafede, intende coprire altri problemi: mi riferisco in particolare ai limiti del Viminale (più di 37mila sbarchi dall’inizio dell’anno contro i 17.500 del 2020 e i 4.800 del 2019, per non parlare dello scandalo del rave abusivo), o delle incredibili parole di Giuseppe Conte sul dialogo con i talebani. E i vari professionisti della strumentalizzazione sono gli stessi che ancora oggi troppo spesso tacciono quando si negano i massacri delle Foibe, o appoggiano Paesi e organizzazioni che inneggiano all’uccisione degli ebrei e alla cancellazione dello Stato di Israele.

Per tutto questo, per uscire da una polemica che sta portando a calpestare tutti i valori in cui credo, a svilire e denigrare la mia memoria affettiva, a snaturare il ricordo di ciò che fecero i miei familiari proprio secondo quello spirito di comunità di cui oggi si avverte un rinnovato bisogno, ho deciso di dimettermi dal mio incarico di governo che ho sempre svolto con massimo impegno, orgoglio e serietà.

Gli Italiani da noi e dal governo si aspettano soluzioni, non polemiche. Quindi faccio un passo a lato, per evitare che la sinistra continui a occuparsi del passato che non torna, invece di costruire il futuro che ci aspetta. Io continuo, anche senza il ruolo di sottosegretario, a lavorare per difendere Quota 100 e impedire il ritorno alla legge Fornero, e a ottenere saldo e stralcio, rottamazione e rateizzazione per i 60 milioni di cartelle esattoriali che rischiano di partire da settembre, massacrando famiglie e imprese.

Non solo. Il tempo che non passerò più al ministero lo dedicherò anche alle mie amate comunità di Latina e Roma: hanno bisogno di progetti, efficienza, sicurezza e lavoro, non di incapacità e polemiche.

Da militante fra i militanti, avrò anche più tempo per raccogliere firme per i Referendum sulla Giustizia fino a settembre, così da arrivare a un milione di firme.

Sperando di aver finalmente chiarito il mio pensiero, auguro buon lavoro a chi prenderà il mio posto. In un grande partito come la Lega siamo tutti sostituibili, tranne Matteo Salvini che ringrazio per il sostegno, la vicinanza politica, morale e umana che ha avuto nei miei confronti. Non da ultimo, ringrazio i tanti militanti, simpatizzanti o elettori che mi hanno  inviato messaggi di vicinanza in questi giorni.

Dall’Ugl alla Lega

I contatti di Durigon sotto osservazione non sono solo quelli con Altomare e Luciano Iannotta (presidente di Confartigianato Latina finito all’arresto in un’indagine dell’antimafia di Roma). C’è anche una figura che Durigon aveva peraltro avuto con sé nel sindacato di cui è stato vicesegretario, l’Unione generale del Lavoro (Ugl). Si tratta di un giovane di nome Simone Di Marcantonio che, a 29 anni, nel maggio del 2018, aveva ottenuto un importante incarico come dirigente Ugl, con tanto di lettera firmata da Durigon che, per qualche mese, aveva mantenuto l’incarico nel sindacato anche dopo le elezioni del 4 marzo. Dopo il sindacato, Di Marcantonio si avvicina anche al partito del sottosegretario. Chi è Di Marcantonio lo spiegano alcuni documenti giudiziari che riguardano la criminalità organizzata a Latina. Tra questi la richiesta di sequestro di beni nei confronti di un imprenditore originario della Calabria, Sergio Gangemi, secondo gli investigatori legato alle famiglie della ‘ndrangheta e condannato in secondo grado per un’estorsione. Nell’inchiesta sul patrimonio illecito di Gangemi spunta il nome del dirigente Ugl nominato da Durigon: «Di Marcantonio risulta essere un prestanome di Gangemi», si legge nel provvedimento del tribunale di Roma che ha disposto il sequestro milionario nei confronti dell’imprenditore. Nello stesso documento troviamo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Riccardo Agostino, lo stesso che accusa i leghisti di contiguità con le cosche locali: «Gangemi ha un prestanome, Simone Di Marcantonio. Quando gli abbiamo fatto un’estorsione è intervenuto Gangemi e ci ha detto che dovevamo lasciarlo stare». Gangemi e Di Marcantonio, sempre secondo il pentito di Latina, conducono a un altro uomo di Durigon e della Lega: Andrea Fanti, che ha curato la campagna elettorale del sottosegretario nel 2018 e tuttora è militante del partito.

Claudio Durigon e Natan Altomare a pranzo nel 2018

Quando Fanti si è candidato nel 2016 al consiglio comunale del capoluogo pontino, nella lista di centrodestra, Di Marcantonio «ci chiamò per dirci che avremmo dovuto fare di tutto per aiutare Fanti. Fanti era il migliore amico di Di Marcantonio, di Gangemi e di tutto il gruppo» ha rivelato ai magistrati di Roma l’ex boss di Latina. Da qualche mese si è aggiunta una nuova collaborazione con la giustizia, quella di Gangemi: nella sentenza di secondo grado che lo condanna per estorsione si legge che «aveva iniziato una attività di collaborazione con l’autorità giudiziaria», dichiarazioni confluite in un «fascicolo coperto da segreto» con focus sul «malaffare nel territorio pontino». Di Marcantonio assicura a Domani che relativamente «alle vicende citate tutto verrà chiarito nelle sedi opportune». L’antimafia di Roma e la squadra mobile della polizia proseguono nelle verifiche del materiale acquisito durante le diverse indagini. Documenti che riguardano anche Altomare, il professionista vicino ai clan che ha pagato due serate elettorali per Durigon e con il quale dialogava via chat prima, durante e dopo la campagna per il voto del 2018.

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