I magistrati svizzeri che hanno in mano la rogatoria sul conto elvetico del governatore lombardo Attilio Fontana non hanno ancora risposto alle richieste dei colleghi italiani dopo molti mesi dal suo inoltro. Eppure quelle domande sono decisive per poter chiudere il secondo filone dell’inchiesta milanese che tocca il politico leghista, già indagato per frode in pubbliche forniture legate ai 75mila camici anti Covid che l’azienda del cognato Andrea Dini avrebbe dovuto vendere e poi donare nel 2020 durante la primissima fase della pandemia ad Aria, la stazione appaltante della regione.

Un contratto siglato senza evidenziare, però, il conflitto d’interessi latente, tanto più che la moglie di Fontana è anche azionista di minoranza della società. Da un tentato bonifico da 250mila euro tra Fontana e Dini, emerso in quella indagine, si era scoperto che il governatore lombardo era titolare di un conto estero milionario aperto per la prima volta in Svizzera nel 1997, ereditato dalla madre dentista defunta nel 2014 e subito regolarizzato con la voluntary disclosure dopo essere stato affidato alle cure di Unione fiduciaria. Denaro che per i magistrati italiani, però, non è solo frutto dei risparmi della madre: almeno 2,5 milioni di euro dei 5,3 milioni di saldo che ha raggiunto quel conto in alcuni periodi sarebbero riferibili al politico varesino, che per questo motivo è indagato anche per autoriciclaggio (a valle di un’evasione fiscale ormai prescritta) e falso in voluntary.

La voluntary disclosure, peraltro, salva il contribuente italiano dall’accusa di autoriciclaggio, a meno che non sia falsa o incompleta, e da questo nasce questa seconda imputazione che tiene in piedi la prima. Per provare queste accuse, però, serve ricostruire attentamente la storia di quel conto corrente e da qui la rogatoria, rimasta incagliata sul lago di Lugano.

La novità è che per provare a sbloccare la situazione qualche settimana fa è stato messo al corrente anche il ministero della Giustizia, che è competente di regola per la gestione delle rogatorie a meno che non ci siano accordi bilaterali di collaborazione diretta come tra Italia e Svizzera, dove a parlarsi sono i magistrati senza intermediazione.

Ma gli scambi finora intercorsi tra i pm italiani e quelli elvetici non hanno portato, con tutta evidenza, a nulla e la carta di un vertice bilaterale governativo potrebbe essere quella risolutiva. C’è da dire che periodicamente il governo italiano si informa con gli uffici giudiziari per sapere se gli accordi in materia di assistenza tra stati funzionino, e quelli tra Italia e Svizzera sono migliorati negli ultimi anni, complici gli accordi siglati tra i due stati.

Ma perché la Svizzera è molto restia a concedere queste informazioni nonostante possano servire per sciogliere i dubbi su un politico e amministratore pubblico molto in vista, a capo della più importante regione italiana?

Per capirlo bisogna entrare nelle pieghe delle norme penali sui reati fiscali e del loro mutuo riconoscimento tra stati.

La Svizzera, a differenza nostra, non riconosce come reato l’evasione fiscale, che in Italia ha valenza anche penale al superamento di certe soglie di imposta evasa. Per l’ordinamento svizzero senza una frode, e quindi una serie di comportamenti serviti a ingannare lo stato sui propri redditi, l’evasione se accertata resta sempre sul piano amministrativo. In Italia, al contrario, vi sono anche varie formule (fattispecie) per individuare il tipo di comportamento penalmente rilevante.

E quindi si parla di frode con artifici, di dichiarazione infedele o di omessa dichiarazione, che vengono punite in misura differente. Senza il mutuo riconoscimento del reato fiscale che sta monte dell’autoriciclaggio, però, la cooperazione giudiziaria è impossibile: se quindi il comportamento di un contribuente italiano non è riconosciuto come fraudolento dalla norma elvetica, è molto difficile che si possa arrivare ad ottenere le informazioni richieste.

La firma falsa

I magistrati italiani hanno valorizzato come indizio che vi sia una frode in una firma falsa che il governatore avrebbe messo al posto della madre nel riaprire un conto in Svizzera nel 2005. Per i magistrati italiani, però oltre alla firma falsa in questo passaggio sarebbero confluiti nel tesoretto custodito presso la banca Ubs circa 2,5 milioni di euro che non erano risparmi del genitore. Gli avvocati Jacopo Pensa e Federico Pace, che difendono Fontana, hanno cercato di dare una spiegazione anche all’origine di questi soldi, portando in procura la documentazione sull'esistenza di un secondo conto della madre – nome in codice Axillos – che poi sarebbe confluito in quello principale. Un conto di cui nessuno, in primis lo stesso politico leghista, sarebbero stati a conoscenza. Ora non resta che capire come si muoverà la Svizzera. Nel filone camici, le cui indagini sono chiuse, le ultime novità sono state la marcia indietro di Fontana che, dopo aver chiesto un interrogatorio, ha preferito rinunciare. E con lui ha rinunciato anche il suo collaboratore in regione Pier Attilio Superti, anch’egli indagato ed emissario del governatore in Aria. Manca solo Carmen Schweigl, braccio destro dell’ex direttore generale di Aria Filippo Bongiovanni, che ha chiesto un interrogatorio ma anche lei forse rinuncerà. Poi sarà il momento della richiesta di rinvio a giudizio.

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