Con altre 318 vittime, l’Italia ha superato la soglia dei 100.000 morti dall’inizio della pandemia. In tutto il mondo si è superata la soglia dei due milioni e mezzo. «La ricerca intorno alla morte e al morire è stata relegata all’ambito degli studi accademici, disertando il campo della riflessione esistenziale tanto nella vita di tutti i giorni quanto nella pratica clinica», leggo nell’introduzione di un saggio appena aperto, e che prosegue spiegando l’importanza di non sottovalutare gli effetti determinati dall’ansia di morte «lasciata libera di agire a livello inconscio». Sembrano righe pensate apposta per questo marzo che segna il primo anno dall’inizio dell’emergenza Covid, ma il  libro in questione è stato pubblicato un anno fa, una manciata di giorni prima del lockdown nazionale, e si intitola Psicologia palliativa, intorno all’ultimo compito evolutivo (Ines Testoni, Bollati Boringhieri).

Si tratta di un manuale dedicato alle cure palliative, alla terapia del dolore e, dunque, specialmente indirizzato alle malattie oncologiche e a carattere cronico-degenerativo. Niente a che vedere con l’attuale crisi sanitaria, si direbbe. Eppure il problema che questa riflessione solleva rischia di accompagnarci molto a lungo.

Le cifre impensabili

Il nostro rapporto con la morte era già monco e irrisolto quando avevamo tempo di riflettere e modo di tenere per mano persone affette da malattie incurabili. Ora, ci troviamo con esplose tra le mani le cifre impensabili dei morti per Coronavirus, persone che spariscono dalle comunità di riferimento in modo spesso fulmineo e senza il conforto della vicinanza fisica.

I corpi, anche i più recalcitranti, acquisiscono gli automatismi della separazione. Le menti, fino a un anno fa esercitate a pensare che la vita è un orizzonte di cui non è necessario contemplare la fine e che c’è sempre un giorno in più, devono cedere all’evidenza del pericolo.

In questo contesto viviamo combattuti tra due fattori opposti e complementari, al momento inscindibili. Da un lato c’è l’importanza di insistere sul mantenimento della memoria.

Questa è essenziale perché il riconoscimento collettivo del dolore di chi resta, ovvero di coloro che fanno parte delle reti sociali delle vittime, di per sé costituisce un supporto alla metabolizzazione del lutto. Inoltre ricordando e celebrando i morti, noi tutti come società, facciamo un importante sforzo di non negazione della realtà.

Dall’altro c’è la necessità di riconoscere il diritto a una stanchezza emotiva profonda, che in molti forse non immaginavano neanche di poter provare. Non ci sono quasi più le forze per guardare quei numeri, e capire che significano volti e storie e parole perdute.

A ogni latitudine, qui e ben oltre i nostri confini, i media per primi arrancano e i dati relativi a contagi e morti rimpiccioliscono nelle homepage assieme ai grafici, più nascosti un giorno dopo l’altro. Lo spazio prima dedicato alla conta dei decessi viene volentieri occupato dalla conta dei vaccini, l’unica cosa che pare vagamente simile al concetto di luce in fondo al tunnel.

La salute mentale 

Nel mezzo di questo processo sbilenco, mentre avanziamo a tentoni, c’è dunque da auspicare che al centro del discorso politico faccia la sua comparsa anche la salute mentale. Nel discorso di Mario Draghi in occasione del voto di fiducia al Senato c’è stata, in tal senso, un’apertura.

Il premier appena incaricato ha infatti indicato come punto centrale della riforma sanitaria il «rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria)».

Tuttavia, a fronte dei traumi individuali e collettivi incorsi nell’ultimo anno - una sorta di lutto a trecentosessanta gradi – rischia di essere troppo poco e troppo tardi.

Al netto della dimestichezza acquisita con lievitati e prodotti da forno, siamo infatti costretti a fare anche altri tipi di conti. Abbiamo perso il lavoro, abbiamo perso la casa, abbiamo perso amici, amiche, fratelli, sorelle, genitori, nonne, nonni, vicini di casa, conoscenti, abbiamo perso un’idea di futuro, i risparmi di anni, l’autonomia e con essa l’età adulta, la speranza, la voglia di farcela.

C’è chi avrà perso niente, chi solo un poco, chi tutto il pacchetto elencato e molto di più ancora. A un certo punto è arrivata la scialuppa di salvataggio del festival di Sanremo e in molti ci sono saliti a bordo con un salto carpiato. Altri hanno borbottato che c’era altro a cui pensare, ed era vero, ma ognuno si salva la testa e il cuore come può. Quello che dovrebbe essere patente è che non possiamo continuare a inventarci dei modi per farlo da soli.

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