A Palermo si respira un’aria pesante. Da un lato l'antimafia dei pennacchi, patinata delle cerimonie istituzionali, dall’altro quella svincolata da ogni tipo d'interesse e lontana dai riflettori che scende in piazza e grida “Fuori la mafia dallo Stato”. Dopo le manganellate che hanno impedito a studenti, sindacalisti, esponenti  dell'Anpi, associazioni antimafia di raggiungere nel giorno dell'anniversario della strage di Capaci l'Albero Falcone, le divisioni tra i due mondi sono più nette.

Marcate dal silenzio del prefetto Maria Teresa Cucinotta, di quello assordante da parte delle più blasonate associazioni antimafia come Libera e il centro Pio La Torre, dall’etichetta di “frange antagoniste” affibbiata dalla questura ai giovani studenti e dalle parole del sindaco Roberto Lagalla che in un'intervista definisce coincidenza elettorale” il sostegno del “signor Dell'Utri” e del “signor Cuffaro”. Nessuna presa di distanza.

Ritorno al passato

Palermo come trentuno anni fa. «Era dai tempi dei funerali di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta che non si verificava un evento così grave. Il popolo che era con Falcone doveva essere tenuto fuori. Pochi giorni fa ho rivisto la stessa inquietante scena», dice sconsolato Rosario Rappa, responsabile del dipartimento Legalità della Cgil davanti l'Albero Falcone dove oggi pomeriggio si è tenuto un incontro organizzato dal “Coordinamento 23 maggio” per «esprimere il proprio dissenso nei confronti della violenta repressione delle forze dell'ordine nei confronti dei manifestanti avvenuta durante la commemorazione della strage di Capaci».

L'Anpi, attraverso l'avvocato Armando Sorrentino, vicepresidente della sezione provinciale dell'associazione dei partigiani, chiede «un'interrogazione parlamentare che faccia luce sulla catena di comando che ha portato a concepire l'ordinanza». Per Sorrentino quanto accaduto in via Notarbartolo «è l'ennesimo mattone posto da questo governo che sin dall'inizio si è presentato così violentemente all'opinione pubblica».

Davanti l'albero Falcone i ragazzi tengono uno striscione che recita “Non siete stato voi ma siete stati voi”. Jarim El Sadi, coordinatore del movimento Our Voice, non esita a dire che «l'aria in questo Paese è cambiata, ci troviamo davanti ad un regime pericoloso che fa della violenza un fatto sistemico ed è ridicolo che il mondo con la patente dell'antimafia rimanga in silenzio dopo quanto accaduto. La situazione che si è determinata è il frutto di una cattiva gestione dell'ordine pubblico di cui il questore è responsabile, di un'ordinanza pensata male e scritta peggio».

Antimafia istituzionale sotto accusa

Il microfono passa di mano in mano e gli interventi dei ragazzi sono ricolmi di preoccupazione ma al contempo di voglia di lottare per affermare la propria libertà d'espressione. Marta Capaccioni, studentessa all'università di Palermo nella facoltà di giurisprudenza, attacca l'ex presidente del Senato Piero Grasso e giudice a latere nel Maxi-processo: «Credo sia inutile che Grasso venga in facoltà a farci le lezioni sul Maxiprocesso, sulla mafia se non ha neanche il coraggio di prendere una posizione chiara su quanto accaduto. Chi non parla deve solo vergognarsi». Gabriele Rizzo, componente del coordinamento 23 maggio e Officine del popolo mostra alle telecamere dei cronisti i segni sulla schiena ancora ben visibili inferti dai manganelli. «La Fondazione Falcone non ha diritto in nome dell'antimafia - dice - di polarizzare un pezzo della città. Non esiste un’antimafia di serie a e una di serie b. Siamo stati censurati ma noi resistiamo».

Una resistenza che si fa sempre più complicata soprattutto nelle scuole. Lì dove l’educazione gioca un ruolo fondamentale. Lo ammette Ferdinando Siringo, vicepresidente del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato e delegato per la formazione e per la scuola del No Mafia Memorial: «Andiamo nelle scuole e le viviamo ogni giorno per parlare di legalità, di coesione negli ideali antimafia e poi in un giorno così importante assistiamo a scontri e manganellate? Cosa dobbiamo dire ai nostri ragazzi? Che Italia dobbiamo raccontare? Per noi non è facile. Vedere le istituzioni che impediscono ai giovani di esprimere le loro idee ci addolora e ci fa sentire traditi».

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