Mario Ciancio Sanfilippo non è un uomo qualunque. A Catania nel suo ufficio ricolmo di porcellane in viale Odorico da Pordenone, sede del giornale La Sicilia, il padre-padrone dell'informazione siciliana, è stato sempre ossequiato dal potere. Ma in queste ore la procura di Catania rappresentata dai pm Antonino Fanara e Agata Santonocito, ha chiesto alla corte del tribunale etneo, presieduta dal presidente Roberto Passalacqua, una condanna a dodici anni e la confisca dei beni che gli erano stati dissequestrati, compresi 40 milioni di euro in conti bancari.

Lo studio

Nel suo studio si sono alternati presidenti del Consiglio, ministri, presidenti della Regione - pochi giorni fa il governatore Renato Schifani gli ha fatto visita - vertici delle forze dell'ordine, prefetti, sindaci, assessori. E anche mafiosi.

Secondo alcuni collaboratori di giustizia i boss Nitto Santapaola e Alfio Ferlito tra le stanze della redazione erano di casa. Pippo Ercolano, cognato di Santapaola, un giorno protestò contro un cronista che in un suo pezzo lo aveva definito “boss”. Il giornalista fu redarguito da Ciancio Sanfilippo in sua presenza ed Ercolano entrato iracondo uscì sorridente. Francesco Di Carlo, boss di Altofonte vicino ai servizi segreti, racconta di una conversazione avuta con Santapaola nella quale il boss catanese definisce Ciancio Sanfilippo «il Ciancimino (Vito, ndr) di Catania. Questo ci serviva». Per il collaboratore di giustizia Giuseppe Ferone “è una persona con cui si può parlare”.

Ciancio Sanfilippo, 91 anni, non è un semplice editore e un grande proprietario terriero ma un esponente di spicco delle classi dirigenti nazionali. «Presidente (per due mandati, ndr) della Fieg (Federazione italiana editori giornali, ndr) dal 1996 al 2001, poi vicepresidente dell'Ansa, è certamente l'editore più affermato del Mezzogiorno. È stato capace di costruire interessi imprenditoriali che sono tracimati dall'informazione per estendersi a molti altri settori: dall'edilizia pubblica e privata all'agricoltura, dal mercato pubblicitario ai servizi turistici», scrive la Commissione parlamentare antimafia nel 2015.

Il suo peso e il suo nome valicano i confini catanesi. Un suo gesto ha cambiato il corso della storia dell'informazione italiana. È, infatti, tra i protagonisti della “guerra di Segrate” quando proprietario del 4 per cento delle quote de L'Espresso-La Repubblica, fu fondamentale nella scalata di Silvio Berlusconi alla Mondadori. Ciancio Sanfilippo, cedendo la sua quota ad altri editori, impedì al Cavaliere di impadronirsi dei giornali del gruppo.

Uomo schivo, è difficile trovare una sua immagine su internet. Non ha mai amato le luci dei riflettori. Uomo di relazioni, «la sua porta era sempre aperta, un porto di mare dove entravano ministri e farabutti», ha ricordato durante il processo il cronista de La Sicilia Tony Zermo recentemente scomparso.

Alla penna di giornalista ha preferito il suo straordinario fiuto per gli affari. Come Re Mida ha saputo trasformare tutto ciò che ha toccato in oro sempre in bilico tra Stato e mafia. Il mistero intorno alla sua figura ha contribuito a creare l'aura del mito che si trasformò quasi in onnipotenza quando il 30 aprile 1985 ospitò nella sua tenuta in contrada Cardinale la famiglia reale d'Inghilterra rimasta estasiata dai profumi delle zagare e degli agrumeti. «Mi ricordo che mi misero a scavare i limoni per mettere dentro il gelato. Il giorno prima venne asfaltata la strada perché lì era tutta campagna», racconta il figlio Domenico Ciancio Sanfilippo all'epoca undicenne.

Ma gli anni in cui Mario Ciancio Sanfilippo faceva colazione insieme ai reali inglesi sono lontani. Durante la requisitoria i pm hanno cercato di dimostrare che «Ciancio non era solo amico di Cosa Nostra ma si avvantaggiava dei servizi della mafia ponendo in essere condotte che erano un contributo causale all'associazione mafiosa».

Sono stati passati in rassegna i suoi «grandi affari»: dall’appalto per il secondo lotto dell'ospedale Garibaldi, passando per i centri commerciali, fino al Piano urbanistico attuativo di Catania, un business all'ombra di mafia e speculazione edilizia dal valore di 300 milioni di euro. Poi hanno tenuto banco le dichiarazioni di ben tredici collaboratori di giustizia e la gestione dell'informazione attraverso il quotidiano La Sicilia.

La vicenda processuale di Ciancio, durata circa quindici anni e dimenticata, seppur con qualche eccezione, dalla stampa, è passata sotto la lente d'ingrandimento di tre procuratori della Repubblica, due udienze preliminari e anche della Corte di Cassazione. Nel 2012 la procura stessa ha chiesto l'archiviazione dell'indagine ma il giudice Luigi Barone l'ha respinta chiedendo un supplemento di indagini. Nel 2015 la giudice Gaetana Bernabò Distefano ha decretato il non luogo a procedere. Proscioglimento poi annullato che ha portato al rinvio a giudizio nel 2017.

Un anno dopo il tribunale di Catania ha emesso un decreto di sequestro e di confisca dei beni dell'impero di Mario Ciancio Sanfilippo per un valore di circa 150 milioni di euro. Vengono confiscati conti correnti alcuni dei quali in Svizzera, polizze assicurative, trentuno società, quote di partecipazione detenute in sette società e beni immobili. Una confisca storica perché per la prima volta la legge Rognoni-La Torre viene applicata ad una testata giornalistica, La Sicilia, della quale Ciancio Sanfilippo lascia il ruolo di direttore responsabile ed editore dopo 51 anni.

Il ritardo

Nella conferenza stampa dedicata al sequestro quando un cronista chiede perché nella vicenda Ciancio si sia giunti ad accertare fatti ed episodi noti con un ritardo di quarant'anni, il procuratore Carmelo Zuccaro risponde amaramente: «Il clima e le connivenze erano dei muri e delle barriere. La magistratura catanese non ha voluto e potuto essere all'altezza dei suoi doveri istituzionali». Parole drammatiche che tracciano con chiarezza i contorni del potere esercitato da Ciancio Sanfilippo.

Nel marzo 2020 la Corte d'Appello, sezione misure di prevenzione, annulla la confisca. Secondo i giudici il patrimonio di Ciancio Sanfilippo appare proporzionato alle entrate e non vi è prova di aver utilizzato capitali illeciti nelle sue attività imprenditoriali. Non viene provato, insomma, il consapevole contributo in favore di Cosa nostra catanese. Ma i magistrati aggiungono che «ciò che emerge in maniera univoca è che Ciancio Sanfilippo era un imprenditore protetto da Cosa nostra catanese, tale rapporto di protezione si era talmente consolidato nel tempo da far sì che Ciancio fosse considerato dall'organizzazione mafiosa come un amico». Per i giudici le «condotte del direttore integrano un rapporto di contiguità, ma tale contiguità non si è mai trasformata in un contributo fattivo all'attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso».

Il suo successo coincide con il periodo storico di dominio della Democrazia Cristiana e con l’epopea dei cavalieri del lavoro di Catania - i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa - le cui iniziative politico-economiche trovavano sempre eco nel giornale.

La parola mafia

Nel panorama dell'informazione catanese l'unica voce fuori dal coro era quella di uno sparuto gruppo di giornalisti guidato da Pippo Fava, direttore prima del Giornale del Sud e poi de I Siciliani ammazzato da Cosa nostra il 5 gennaio 1984 per le sue inchieste sulle collusioni tra mafia e politica.

La parola mafia nelle colonne de La Sicilia non doveva comparire. Erano gli anni dell'ascesa di Giuseppe Calderone e Nitto Santapaola, dei legami a doppio filo con l'imprenditoria catanese, della mafia catanese che si fa metodo a livello nazionale. «La mafia che da Catania viene alla conquista di Palermo», aveva rivelato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in una celebre intervista al giornalista Giorgio Bocca. Dichiarazioni che La Sicilia ignora per un'intera settimana.

A Palermo il 28 luglio del 1985 viene ucciso dalla mafia il commissario agrigentino, cresciuto a Catania, Beppe Montana. La famiglia in occasione del trigesimo preparò un necrologio nel quale esprimeva il suo «rabbioso rimpianto», «rinnovando ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori». Quel necrologio, però, non venne mai pubblicato dal giornale di Ciancio Sanfilippo.

Nella prefazione del libro Una città in pugno, scritto da Antonio Fisichella, Isaia Sales descrive così l'editore: «Mario Ciancio Sanfilippo è stato ed è il più emblematico e duraturo uomo di potere che ha influenzato e condizionato la storia di un'importante città italiana e per più di cinquant'anni ha intessuto relazioni pericolose senza essere scalfito da nessuna indagine giudiziaria». Fino a poco tempo fa.

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