Nei film per quasi tutta la storia del cinema se qualcosa si mangiava si trattava di comfort food. Era vero per tutti in qualunque paese. Il comfort food era rappresentazione degli affetti, rappresentazione dell’identità nazionale e rappresentazione del piacere in un colpo solo. Il simbolo per eccellenza di una radice comune tra personaggi e pubblico.

Se Alberto Sordi deve guadagnarsi l’approvazione del pubblico inforca gli spaghetti e lo stesso fa Totò (mettendoseli in tasca!) in Miseria e nobiltà, così da strappare applausi. Quando in un film d’animazione di Hayao Miyazaki c’è bisogno di parlare di casa e piccoli affetti qualcuno prepara un pasto, può essere una colazione o una zuppa tradizionale, tutto disegnato per essere lucido e fumante. Quando nel film cinese A Better Tomorrow 2 bisogna rappresentare il tradimento viene tirata in ballo una ciotola di riso tradizionale. Quando i poliziotti dei film americani cementano la loro amicizia lo fanno al barbecue domenicale, in cui accoppiano hamburger e hot dog a camicie hawaiane e birre in bottiglia. Quando il topo protagonista di Ratatouille deve conquistare il terribile critico francese Anton Ego gli prepara un piatto tradizionale (una ratatouille per l’appunto) che per lui è un ricordo d’infanzia. E proprio quest’ultima forse è la migliore rappresentazione di sempre del concetto di comfort food, la pietanza dal forte potere evocativo che si pone all’incrocio tra memoria, gusto e tradizione.

Il cibo nel cinema popolare

Del resto il cinema ha a disposizione solo due dei cinque sensi su cui lavorare: vista e udito. Gli altri li deve evocare usando quei due, attraverso stratagemmi di linguaggio messi a punto negli anni (ad esempio il tatto è evocato dal rumore che gli oggetti fanno, capace di farci capire il materiale di cui sono fatti o, nel caso delle carezze e dei pugni, l’intensità del contatto). Il gusto è vista, è fumo che esce dal piatto, abbondanza delle quantità, colore degli ingredienti.

Le commedie popolari, i drammoni, le tragedie ma anche i film d’azione, cioè le storie che rilanciano i valori nei quali un popolo identifica se stesso ad un dato momento storico, sono quelli in cui più si mangia. Bombolo non mangia una cotoletta, né la pasta alla Norma, ma un piatto gigantesco di spaghetti alla carbonara e fa bene attenzione a mischiarli di continuo, a spolverare il pecorino e grattare il pepe da un macinino gigante.

 

Aldo Fabrizi spiega alla sua governante non romana la differenza tra pancetta e guanciale. Eduardo De Filippo come fare correttamente il caffè. Tutto è piacere, tutto è identità nazionale attraverso tradizioni locali. Addirittura in La banda J.& S., uno spaghetti western di Sergio Corbucci con Tomas Milian, proprio lui il protagonista (nel west!) mangia degli spaghetti esaltato dal cibo. Anche se siamo nell’800 americano. Anche se il personaggio è un messicano! L’unica cosa che importa è la nazionalità di chi guarda e la condivisione che si può scatenare.

Mettendo da parte il cinema erotico e soft core, in cui il cibo ha una componente di allegoria del piacere sessuale, in quello popolare per decenni è esistito solo il comfort food (gli stessi anni in cui questo termine era da noi sconosciuto), è il cinema moderno semmai ha iniziato a rappresentare anche altre tipologie di pietanze. È molto raro che in un’avventura di Bud Spencer e Terence Hill manchi una scena in cui i due mangiano. E quando mangiano si tratta di hot dog e birra, di grandi polli arrosto, abbacchi, gelati, spaghettate o panini giganti. 

Come i film usano il comfort food

Come tutto del resto anche il cibo al cinema è uno strumento. I film lo usano per aiutare il pubblico a comprendere cosa stia accadendo, per definire i personaggi o per dare un tono alla scena. Quando il terribile colonnello delle SS Hans Landa pone una serie di domande all’ebrea Shoshanna in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, lo fa a tavola, ordinando per entrambi uno strudel e in un momento di incredibile tensione vuole farci aspettare un altro po’ a dichiarare quel che ha da dirle perché arrivi la panna. Poteva essere qualsiasi pietanza ma di nuovo è comfort food (che in quel caso è tale solo per il colonnello nazista), perché è qualcosa che capiamo anche se usato per contrasto: dovrebbe essere un momento lieto e piacevole, invece per Shoshanna (e per noi che siamo con lei) è un graticola. 

Mangiare non è mai un atto neutro nei film. Se cucinare è sempre l’espressione della propria interiorità, oppure come nel nuovo cinema a tema cucina è una proiezione della propria tensione verso l’eccellenza; mangiare invece è sempre un’azione che dichiara appartenenza, nazionale il più delle volte ma anche no.

 

Quando Bridget Jones disperata si rifugia nel gelato (o anche quando Nanni Moretti incontra in cucina un barattolo gigantesco di Nutella) è di nuovo appartenenza. Non appartenenza al sistema di valori che identifica un popolo ma a qualcosa di più universale: una categoria umana, ad un modo di vivere i sentimenti o anche solo alla più umana normalità.

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