«Ringrazio l’On. Claudio Durigon in qualità di Delegato Nazionale per le Politiche del Lavoro della Lega e Vice Segretario Nazionale UGL, per la mia nomina in qualità di Dirigente Sindacale della Regione Lazio per i lavoratori autonomi e di partita iva. Senz’altro questa fiducia verrà ripagata con altrettanta lealtà ed impegno nei suoi confronti e del Segretario Regionale Armando Valiani nonché verso tutti i lavoratori che rappresenterò su tutto il territorio regionale!». Il ringraziamento pubblicato sui social di Simone Di Marcantonio, e riportato dal sito Latina Tu, è difficile da digerire all’interno della Lega oggi che il ragazzo voluto nel sindacato da Durigon, attuale sottosegretario al Lavoro, è stato condannato in primo grado per estorsione insieme a un gruppo di persone considerate affiliate al clan Di Silvio di Latina. A questo si aggiunge un altro processo in cui è imputato con l’accusa di aver fatto da prestanome a un pezzo grosso della ‘ndrangheta calabrese radicata nel Lazio.

Sono importanti le date: la fiducia accordata da Durigon al giovane Di Marcantonio raggiunge l’apice tra il 2018, anno delle elezioni politiche che porteranno la Lega al governo, e il 2019. In questa parentesi temporale Di Marcantonio entra grazie al politico nel sindacato Ugl. Nello stesso periodo frequentava e intratteneva rapporti con uomini dei Di Silvio e della ‘ndrangheta. Durigon, mai indagato e mai coinvolto nell’inchiesta, potrebbe spiegare e rispondere alle domande sulla vicenda che crea non pochi imbarazzi all’interno del partito e del governo, ma preferisce il silenzio. Durigon si era dimesso dal governo Draghi dopo la sua dichiarazione sull’intitolazione al fratello di Mussolini del parco di Latina dedicato ai giudici Falcone e Borsellino. 

Il profilo di Di Marcantonio avrebbe dovuto mettere in allerta il capo della Lega in regione, fedelissimo di Matteo Salvini e papà della legge sulle pensione ribattezzata quota 100. Eppure Durigon continua a non parlarne né a prendere le distanze, sollecitato da Domani a commentare la sua scelta di assegnare un ruolo nell’Ugl a Di Marcantonio e se si è pentito di quella decisione, non ha replicato in nessun modo, lasciando trasparire così un forte imbarazzo per i rapporti che lo hanno legato all’uomo vicino ai clan. 

La condanna

Di Marcantonio è stato condannato nei giorni scorsi a 4 anni, ritenuto il mandante di un recupero crediti affidato a uomini del clan Di Silvio nei confronti di un imprenditore-spacciatore legato a quel mondo, diventato successivamente collaboratore di giustizia. A capo del gruppo sotto processo c’è Giuseppe Di Silvio detto “Romolo”, profilo criminale di alto profilo. In pratica Di Marcantonio aveva chiesto un aiuto ai soldati della cosca per convincere il soggetto, in realtà un suo probabile prestanome, a restituire i soldi spariti da una società di servizi. 

Legami di ‘ndrangheta

Su Di Marcantonio pesano anche altre accuse, come quella di essere stato un prestanome di Sergio Gangemi, ritenuto un personaggio legato alla mafia calabrese. Alcune relazioni riservate dalla direzione investigativa antimafia, pubblicate nei mesi scorsi da Domani, si spingono oltre definendolo punto di riferimento nel Lazio di alcune famiglie di ‘ndrangheta originarie di Reggio Calabria, la città e la provincia delle cosche più potenti.

Per avere un’idea di chi sia Gangemi è utile riportare un passaggio dell’informativa dell’antimafia. Gli investigatori che hanno incrociato documenti giudiziari del passato e analizzato decine di segnalazioni dell’antiriciclaggio recenti hanno definito la famiglia Gangemi «una holding» con a capo il padre di Sergio. Originari di Reggio Calabria città, il capo famiglie «sarebbe legato a alla ‘ndrina Araniti», cognome che ha segnato la storia degli ultimi 50 anni di storia criminale in Calabria.

Nelle carte analizzate il flusso di denaro movimentato tra società tra Italia e estero è notevole. I detective antimafia descrivono così il gruppo con cui Di Marcantonio è in rapporti: «Il nucleo familiare dei Gangemi, ormai stabilmente nell'area pontina e della Capitale, rappresenta certamente un fulcro di cointeressenze con le cosche di 'ndrangheta operanti sul territorio: in tal senso va infatti interpretato il continuo reinvestimento di capitali illeciti realizzato attraverso l'acquisto di immobili ed un vorticoso ed eclettico impegno di interessi economici e finanziari che è verosimile avvenga sotto il controllo, la direzione o quantomeno il placet delle organizzazioni criminali calabresi».

I documenti riservati

L’ascesa di Sergio Gangemi, si legge nel documento, «restituisce la fotografia plastica del laboratorio criminale che è il Lazio, dove nello stesso circuito relazionale si intrecciano figure e interessi della ‘ndrangheta, di cosa nostra siciliana, della camorra e della banda della Magliana».

Un pentito di Latina, collegato al clan Di Silvio, ha peraltro parlato del sostegno elettorale ricevuto da un leghista del territorio durante le elezioni locali del 2016. Con lui c’era Di Marcantonio, ancora l’uomo scelto da Durigon per il sindacato. 

La foto di Di Marcantonio con la felpa della Lega e il responsabile del partito a Latina, che si è dimesso il giorno prima degli arresti contro il clan

«È verosimile che una volta definiti gli obiettivi, il gruppo operativo sia del tutto funzionale alla soluzione di eventuali ostacoli sul territorio: in tal senso sono da inquadrarsi le aderenze con le amministrazioni comunali che, laddove non conniventi, vengono piegate attraverso uno stillicidio di episodi intimidatorio», si legge nei rapporti riservati dell’antimafia su Gangemi.

Soldi e armi. Gangemi del resto è stato coinvolto nelle minacce di un imprenditore a Torvaianica: da lui voleva 25 milioni di euro a fronte di un prestito di 13 milioni. Per convincerlo, ha denunciato la vittima, hanno usato due bombe a mano, modello in uso all’esercito italiano e maltese. Armi da guerra per punire chi non voleva più sottostare alle regole imposte dal gruppo Gangemi. Le granate sono state lanciate contro la villa dell’imprenditore durante la prima spedizione. I resti sono stati ritrovati poi dalla polizia sul luogo. Nella seconda spedizione i colpi erano di di fucile automatico. In secondo grado Gangemi è stato condannato a 7 anni, ora è di nuovo sotto processo con il prestanome Di Marcantonio, piazzato dal sottosegretario Durigon nel sindacato di cui era vice segretario.

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