La crisi da Covid ha devastato la finanza pubblica di tutti paesi europei. Non sorprende quindi che governi e opinione pubblica puntino il dito sui colossi della rete, che da noi pagano poco o niente in tasse.

Italia e Francia hanno imposto una digital tax che, oltre a dimostrarsi inefficiente e inefficace, costituisce di fatto una barriera tariffaria contro le multinazionali americane che dominano il settore ed espone quindi l’Europa al rischio di una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Ma soprattutto offusca il vero problema dell’erosione della base imponibile da parte delle multinazionali, e non solo: un sistema di tassazione delle imprese che insegue a fatica l’evoluzione della struttura di aziende e mercati.

Non solo digitale

Che i colossi del web paghino meno tasse delle imprese europee è un fatto: nel 2019, le cinque maggiori (Apple, Amazon, Google, Microsoft e Facebook) hanno pagato un’aliquota effettiva del 15 per cento, contro il 24 per cento mediano delle 1277 società non finanziarie quotate dell’Eurozona.

Tuttavia, il 15 per cento è anche la mediana dell’aliquota effettiva delle maggiori 2.140 società non finanziarie quotate negli Stati Uniti, segno che la bassa tassazione è un fenomeno generalizzato in un paese dove prevalgono le multinazionali, e non solo nel digitale. Ma sarebbe un errore pensare che il problema della tassazione delle multinazionali riguardi solo le società americane. Riguarda anche noi, anche se in misura minore data la prevalenza di piccole-medie imprese.

Nel 2019, a fronte di un’aliquota effettiva mediana del 25 per cento delle società italiane quotate non finanziarie, sette multinazionali (Ferrari, Campari, Technogym, Pirelli, DeLonghi, Prada, Stm) hanno pagato in media 14,7 per cento (ma appena 13 per cento Stm, dove lo Stato italiano e quello francese sono azionisti di controllo: quis custodiet custodes?).

Altro esempio: la S.p.a. italiana di Ferrero, non quotata, ha pagato 33 per cento su utili ante imposte di 118 milioni, ma la sua S.A. lussemburghese appena il 2,3 per cento su ben 951 milioni di utili.

Un’impresa multinazionale ha l’incentivo a produrre in paesi a bassa fiscalità e cedere il prodotto, con un margine elevato, alla capogruppo in un paese a fiscalità elevata, che lo commercializza; e a indebitare quest’ultima, essendo gli interessi deducibili fiscalmente. Poiché la componente intangibile sta poi diventando il principale elemento del valore dei beni (marchio, brevetti, tecnologia, progettazione, servizi accessori), aumentano le possibilità di arbitraggio fiscale tra giurisdizioni: ciò che è intangibile può essere spostato facilmente.

L’analisi dei prezzi di trasferimento all’interno di uno stesso gruppo e il concetto di stabile organizzazione, a prescindere dalla struttura societaria e sede legale di una società, sono i due strumenti utilizzati dalle autorità fiscali per combattere l’erosione fiscale. Entrambi presuppongo una qualche presenza fisica in ogni giurisdizione, e pertanto diventano inefficaci col digitale che, per vendere, non necessita di una stabile organizzazione locale. Multinazionali e digitale hanno così reso impervia la determinazione della giurisdizione in cui viene “prodotto il reddito”.

Per questo l’Ocse ha promosso un accordo internazionale per una riforma complessiva e radicale del sistema di imposizione delle multinazionali (atta anche a scongiurare guerre commerciali con gli Usa) e che dovrebbe essere presentato nella sua formulazione finale entro la fine dell’anno. Sarebbe nell’interesse di Italia e Francia sostenere la ratifica dell’accordo, piuttosto che continuare con le velleitarie digital tax nazionali.

Come tassarle di più

L’Ocse riconosce che il problema della tassazione delle multinazionali è comune a tutti i “consumer facing business” ovvero beni venduti direttamente al consumatore (e che eccedano un certo fatturato), anche con canali di distribuzione tradizionali: quindi non solo social network, e-commerce o pubblicità online ma anche cosmetici, beni di lusso, abbigliamento, alimentari e bevande di marca, auto, elettronica, viaggi e turismo eccetera (ma non, chissà perché, i servizi finanziari). Quindi propone di partire dall’utile consolidato mondiale della multinazionale e determinare, per ogni linea di business, un profitto normale (“routine profit”) tassato nel paese della sede fiscale della capogruppo.

La parte residua (“residual profit”) viene tassata dai paesi nei quali originano i ricavi, in questa proporzione, a prescindere dalla stabile organizzazione. In ogni paese dove i prodotti vengono venduti c’è poi l’imputazione di un reddito predeterminato per l’attività di marketing e distribuzione, e che sostituisce, ma solo per queste attività, il meccanismo dei prezzi di trasferimento. Il tutto garantito da trattati contro la doppia imposizione.

Sarebbe una grande passo avanti. Ma sarebbe sbagliato vederlo solo in un’ottica di finanza pubblica: tasso di più le multinazionali per tassare meno i cittadini. Primo, perché le imposte societarie vanno valutate tenendo anche conto che il reddito di impresa viene a sua volta tassato nel momento in cui viene distribuito ai beneficiari ultimi sotto forma di dividendi e capital gain: in Italia, l’aliquota a cui sono assoggettati complessivamente i redditi d’impresa (imposte societarie più quelle sui redditi da capitale) è già grossomodo allineata all’aliquota massima dei redditi delle persone fisiche.

Secondo perché le imposte societarie rappresentano in Italia poco più del 2 per centodel Pil e 5 per cento delle entrate tributarie, come in Francia e Germania; mentre salgono in media al 3,6 per cento del Pil nei paesi a bassa fiscalità (Belgio, Olanda, Lussemburgo, Irlanda e UK). Se anche si riuscisse con il nuovo accordo Ocse a trasferire all’Italia una parte di queste imposte, anche 1 per cento del Pil, quasi 93 per cento del gettito dovrebbe essere comunque coperto da imposte su persone e cose. Non certo risolutivo. L’importanza dell’accordo Ocse sta piuttosto nell’efficienza: togliere alle multinazionali un indebito vantaggio a favore delle imprese a vocazione domestica.

A ciascuno la sua aliquota

Infine, l’accordo non esaurisce il problema dell’erosione della base imponibile perché il fenomeno è altrettanto importante a livello nazionale. A fronte di un’aliquota effettiva mediana del 25 per cento delle imprese italiane non finanziarie quotate, si va dal 12 per cento dell’impresa al ventesimo percentile al 33 per cento dell’ottantesimo percentile.

Se si escludono le società dei servizi di pubblica utilità, la mediana scende al 22 per cento mentre la dispersione rimane invariata. Se poi si considerano solo le società con meno di 400 milioni di capitalizzazione la mediana risale a 24 per cento ma aumenta la dispersione, dal 3 al 35 per cento.

Anche escludendo i percentili estremi, la giungla di eccezioni, incentivi, sussidi del nostro ordinamento tributario - e il fatto che l’Irap ha una base imponibile diversa dagli utili - fa sì che, di fatto, ogni impresa abbia la propria aliquota: un grave costo in termini di efficienza economica perché il capitale rischia di andare non all’impresa con la maggior redditività, ma a quelle col miglior tax planning.

Fonte dei dati: Ocse, Tax Database e Factset, Bilanci societari

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