Lo si potrebbe definire un commando il sestetto di uomini Eni che è rimasto impigliato nell’inchiesta della procura di Milano sul presunto complotto ordito per depistare i pubblici ministeri del capoluogo lombardo che hanno indagato e poi condotto i processi Eni-Shell Nigeria e Saipem Algeria, in primis il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale.

Alla chiusura definitiva di queste indagini – aperte nel 2017 – per Vincenzo Armanna, Piero Amara, Massimo Mantovani, Antonio Vella, Michele Bianco e Vincenzo La Rocca gli inquirenti hanno ipotizzano l’esistenza di un’associazione per delinquere finalizzata a commettere una serie di reati che vanno dalla calunnia all’intralcio alla giustizia alle false dichiarazioni ai pubblici ministeri fino alla corruzione tra privati.

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Oltre a loro vi sono altri sei indagati persone fisiche e cinque società, tra le quali spicca Eni Trading & shipping. Dei sei solo due sono attualmente in forza alla società: si tratta dei legali Bianco e La Rocca, mentre gli altri sono tutti ex, licenziati o usciti dalla società negli anni scorsi.

Non c’è Descalzi

Nell’atto che segna la chiusura delle indagini non ci sono, al contrario, gli attuali vertici del Cane a sei zampe, a partire dall’amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo vice Claudio Granata. I due erano stati iscritti nel registro degli indagati e per loro si ipotizzava il ruolo di mandanti di questo pesante depistaggio, ma la loro posizione è stata stralciata ed è probabile che si vada verso una archiviazione se non dovessero emergere fatti nuovi e gravi. Anzi, il loro ruolo ne esce ribaltato da queste indagini iniziate dai pm Laura Pedio e Paolo Storari, e chiuse dalla prima in pool con Stefano Civardi e Monia Di Marco.

Storari, che ha sempre sostenuto la scarsa affidabilità dei principali indagati in questa indagine, ha abbandonato lo scorso anno l'inchiesta dopo una clamorosa la scoperta che aveva consegnato i verbali secretati di Amara, contenenti le rivelazioni sulla presunta Loggia Ungheria, al membro del Csm Piercamillo Davigo. Verbali da lì finiti sui giornali.

Per i pm Descalzi e Granata sarebbero stati oggetto di calunnie messe in piedi da Armanna, ex dirigente Eni in Africa allontanato dalla società nel 2013, dall'avvocato esterno ex Eni Amara e dal suo socio Giuseppe Calafiore. In particolare i tre avrebbero montato una storia secondo la quale Granata avrebbe offerto ad Armanna una riassunzione in Eni e 1,5 milioni di euro l’anno attraverso la società nigeriana Fenog (che lavorava per il gruppo Eni) se avessero attenuato le accuse contro Descalzi, indagato e poi imputato chiave (e assolto) del processo per la maxi-tangente nigeriana da 1,09 miliardi di dollari.

Il denaro

I soldi, tanti, sono un'altra delle peculiarità emerse da questa inchiesta: 6,6 milioni di dollari sono arrivati ad Armanna attraverso la Fenog tra il 2015 e il 2018. Poco meno di due milioni di euro sono quelli che prende Amara da società del gruppo Napag, che svolge il ruolo di collettore di denaro da Eni trading & shipping, società da fine 2016 sotto la guida dell'ex capo del legale, Eni Massimo Mantovani, per passare ai suoi sodali.

Per gli avvocati Francesco Centonze e Tullio Padovani, che difendono Mantovani, «dopo quasi cinque anni di indagini, tutto ciò che si è potuto partorire nei confronti del nostro assistito è una serie confusa di accuse generiche nelle quali non si individuano né comportamenti specifici né gli interessi che l’avrebbero mosso nel compimento di tali presunte attività».

Mantovani, uomo chiave di questa vicenda secondo i pm, per assicurarsi il silenzio dei suoi sodali, aveva favorito l'accreditamento delle società del gruppo Napag di Francesco Mazzagatti, indagato e residente a Dubai, presso Eni e avrebbe fornito a questa società oltre 25 milioni di euro di commesse riciclate poi in un impianto petrolchimico in Iran.

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