Ci sono tipi umani che il mondo, per un istinto bastardo e inspiegabile, rigetta come pezzi di sé di cui non sa che farsene. Persone che, sfigurate dal fuoco quando ancora la corsa devono iniziarla, sembrano avere il destino già scritto. Lisa Montgomery è cresciuta all’inferno e, nella sostanza di cui era composta, le cicatrici che s’è procurata lì se le è portate addosso per sempre.

Quei segni egocentrici e dolorosi, però, non ha mai voluto guardarli nessuno, e il dramma che l’ha marchiata da bimba, alla fine, l’ha consumata tutta, incendiando ciò che la circondava. Il mondo quindi, ineluttabile e cieco, l’ha rigettata.

La vita e i traumi

Lisa nasce il 27 febbraio 1968 a Melvern, in Kansas. Vive con la sorellastra di quattro anni più grande, Diane, il patrigno e Judy, la madre; donna violenta, dura e alcolizzata che in gravidanza causa una sindrome feto-alcolica a Lisa.

Le due bimbe, non del tutto consce di vivere in un orrore allucinato, cercano di proteggersi a vicenda dalle torture a cui sono sottoposte quotidianamente. Una volta Diane è costretta a stare nuda in strada, un’altra Judy uccide il cane di famiglia davanti alle sorelline. Finché una notte, quando la madre è in città ad annegare nell’alcol, Diane viene stuprata da uno dei tanti babysitter saltuari ingaggiati da Judy, un uomo avanti d’età che manco conosceva.

Mesi dopo i servizi sociali portano via Diane per darla in affidamento: per lei è la fine degli abusi, ma per Lisa è solo l’inizio. Il patrigno comincia a seviziarla, e va avanti per anni portandola in un rimorchio per roulotte comprato apposta. Chiusi lì, lui e i suoi amici stuprano, picchiano e insultano Lisa per ore e ore; spesso, le orinano addosso. Judy sa cosa succede nel rimorchio vicino casa, ma dà la colpa a Lisa (quando la vede per la prima volta con quegli uomini, la minaccia con una pistola). Inizia quindi a vendere il corpo della bambina, usandola come moneta di scambio, dandola a elettricisti e idraulici.

La gente del quartiere inizia a conoscere la storia di Lisa ma nessuno fa niente, neppure chi avrebbe dovuto: assistenti sociali, medici e poliziotti. A diciott’anni sposa il fratellastro, però non cambia niente: le botte e gli stupri continuano, adesso il marito registra sia le percosse, sia le violenze sessuali per poi costringere Lisa a guardarle con lui. La donna rimane incinta quattro volte, ma a 32 anni Judy la fa sottoporre con la forza a una sterilizzazione.

Nel periodo successivo, crede più volte di aspettare un figlio, succede anche che si convinca che quel bimbo o quell’altro, incontrato in giro, sia suo. Passa gran parte delle giornate al computer, si allontana da tutti, come fosse in un mondo distante.

Non ha relazioni se non con i figli e con il nuovo marito (si è sposata di nuovo). E quel corpo di cui nessuno s’è mai voluto prendere cura, lo abbandona lei stessa al nulla che cerca da anni d’inghiottirla. Finché un giorno, nell’autunno del 2004, un giorno di quiete apparente, Lisa conosce su internet Bobbie Joe Stinnett, ventitreenne all’ottavo mese di gravidanza.

E la tragedia di Lisa, tessera di un domino che cade alla prima scossa del terreno, ne innesca un’altra.

(Foto: AP)

Il male genera male

È il male a generare il male, ed è in questa procreazione che tutto si fa buio. Bobbie Joe Stinnett è stata uccisa da Lisa Montgomery il 16 dicembre 2004. Strangolata a morte, l’assassina le ha reciso l’addome per prenderle la bimba che portava in grembo (bimba che Lisa, nel proprio delirio, era convinta fosse sua; nelle ore in cui l’ha tenuta con sé, l’ha rinominata Abigail). Il corpo di Bobbie è stato trovato il giorno dopo, Lisa è stata arrestata quasi subito e la neonata, Victoria, è ritornata alla famiglia, con cui vive oggi.

Condannata a morte nel 2007, Lisa è stata uccisa con un’iniezione letale il 13 gennaio 2021; la prima donna in 67 anni a essere ammazzata dal governo federale degli Stati Uniti, la quarta della sua storia. Psichiatri e avvocati coinvolti nel caso si sono detti certi, e a più riprese tra il 2005 e il 2020, che Lisa non fosse capace d’intendere e di volere sia quando ha strangolato Bobbie sia durante il processo (cinque giorni dopo l’assassinio, aveva già rimosso ciò che aveva fatto).

Le sono stati diagnosticati un disturbo bipolare, una sindrome da stress post traumatico, una forte dissociazione e una profonda depressione; gli ultimi giorni della sua vita li ha trascorsi in una zona a parte del penitenziario perché si temeva potesse suicidarsi. Sulla lettiga dove è stata uccisa, sdraiata e legata, le è stato chiesto se avesse delle ultime parole, ma lei ha risposto “No”. Solo “No”. “No” e basta. E dopo sedici anni di carcere è stata messa a morte.

Raccontando la storia di Lisa Montgomery il mio intento non è cancellare le sue colpe. Non instillare pena o sentimenti di simpatia nei suoi confronti. Non giustificare i suoi crimini con un trascorso di violenze tremende. Il delitto di Lisa è atroce, e niente e nessuno potrà mai eliminare il dolore che ha causato. Il mio intento non è sgravarle di dosso la colpa, ma umanizzare la colpevole. Lo faccio con lei, ma penso sia un ragionamento valido per tutti. Lisa è un esempio, e i motivi per cui ho deciso di parlare di lei sono due.

Primo, perché lei, con la sua esistenza martoriata, con la sua infanzia infranta, fatichiamo a considerarla un mostro: ai nostri occhi rimane un essere umano. Secondo, perché il suo episodio rende chiaro quanto possa essere fallibile un sistema di giustizia e, di conseguenza, quanto orribile sia il meccanismo che prevede che un uomo, imperfetto in quanto tale, possa trovarsi tra le mani la facoltà di uccidere un suo pari. Lisa non doveva essere ammazzata al di là dei problemi psichiatrici, è questo che voglio dire (anche se quelli, come detto, rendono la storia più grottesca).

Doveva pagare per i crimini commessi, sì, ma chi l’ha giudicata avrebbe dovuto fare giustizia, non cercare vendetta. È verso un mondo giusto che dobbiamo andare, non un mondo vendicativo, di paura e di dolore. E se non come una vendetta, come giudicare la messa a morte di una donna così sofferente?

Insomma, con l’omicidio di Lisa cos’ha ottenuto il popolo degli Stati Uniti, sul cui nome cade l’atto d’esecuzione? Cosa il suo governo? Cosa la famiglia di Bobbie? Ora le donne morte sono due, le famiglie che piangono sono due, i boia colpevoli sono due. Dell’altro dolore, ecco cosa hanno ottenuto tutti. Ma in fondo, la pena di morte porta solo a questo.

I paesi che la prevedono sono 56; alcuni per reati gravissimi, altri anche per quelli comuni.

Per Amnesty International, nel 2019 sono state messe a morte 657 persone; ma di dati certi non se ne hanno, ed è convinzione di molti che paesi quali la Cina, che uccide più di qualsiasi altro e per di più con processi sommari, non forniscano dati reali.

(Joseph C. Garza/The Tribune-Star via AP)

La lettera

Si tratta, in effetti, di omicidi. Esecuzioni che violano il diritto alla vita. Che s’insinuano tra le maglie labili della società. Che non hanno valore deterrente. Che non leniscono il dolore di chi sulla terra ci rimane e che anzi, come detto, la sofferenza la scaricano su altri individui. Gesti privi di umanità, in apparenza privi pure di coscienza o carica empatica. E per rendersene conto, basta leggere la missiva con cui a Lisa è stato detto che nel giro di qualche giorno sarebbe stata ammazzata dal dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti:

“Cara signora Montgomery,

lo scopo di questa lettera è informarla che una data per l’espletamento della sua sentenza di morte è stata scelta”.

Niente di più. Seguono tre righe inutili di nomi e numeri. In calce, la firma di chi si è occupato del caso e, in fondo, una lunga lista di persone in copia. Stop. Parole che traboccano di burocrazia. Impersonali, deboli e insieme acuminate, fredde, bastarde. E credo sia questa spersonalizzazione istintiva dell’estraneo, il problema più grosso.

Ormai siamo abituati a guardarci senza vederci, a riconoscerci a vicenda come nemici fino a prova contraria, a risolverci l’un l’altro in categorie rassicuranti e semplici. Avvertiamo le persone non appartenenti alla nostra cerchia come così distanti da noi da essere diventati incapaci di provare empatia per chi non conosciamo. E così non facciamo che sottrarre valore alla vita altrui. Siamo tutti esseri umani, però, attaccati alla vita, messi qui da chissà chi e per chissà quale ragione a condividere spazi e tempi. Ed è nei nostri gesti e nelle nostre parole e nelle nostre decisioni che risiede l’anima della società, un equilibrio precario a cui si attenta ogni volta che qualcuno viene ucciso.

Se le vene in cui è stato iniettato il veleno erano di Lisa, la morte è stata della civiltà tutta.

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