«Dopo che il telefono, il cinematografo e il fonografo avevano sostituito il giornale, il libro, il maestro di scuola e la lettera, vivere al di fuori del raggio d’azione dei cavi elettrici significava vivere come un selvaggio isolato.

Invece di anni di studio, i candidati avevano sostituito alcune settimane di trance, durante le quali gli allenatori esperti dovevano semplicemente ripetere tutti i punti necessari per una risposta adeguata, aggiungendo un suggerimento sul ricordo post-ipnotico di questi punti. In particolare nel processo matematico, questo aiuto si è rivelato particolarmente utile e ora veniva invariabilmente invocato da questi studenti. (...)

“A proposito delle scuole elementari pubbliche”, disse Graham. “Le controllate?” Il geometra generale divenne sentimentale. “Cerchiamo di rendere le scuole elementari molto piacevoli per i bambini. Dovranno lavorare molto presto. Pochi semplici principi: obbedienza-industria”. “Insegnate loro ben poco?” “Perché dovremmo? Porta solo a problemi e malcontento”».

H.G. Wells si inventa questa distopia educativa nel suo libro Il risveglio del dormiente pubblicato nel 1899. Nel romanzo si immagina che un uomo di nome Graham si risvegli nella Londra del 2100 dopo aver dormito per più di duecento anni.

La città è completamente trasformata, e si alternano gli aspetti utopistici e immaginifici dati dall’innovazione tecnologica a quelli terrifici e distopici. Il testo di Wells è uno dei non moltissimi esempi di romanzi di fantascienza che descrivono dei sistemi scolastici.

La fantascienza ci serve a immaginare le società future, lo sappiamo da molti autori che negli ultimi anni hanno riflettuto approfonditamente sul valore della fantascienza come dispositivo di costruzione di un immaginario comune politico (pensiamo ai casi di Philip K. Dick, di Margaret Atwood, di James Ballard o di Ursula Le Guin); la fantascienza ci serve a immaginare le società future e spesso lo fa attingendo direttamente alle scienze sociali.

Nonostante la sua propensione quindi anche alla pedagogia, si potrebbe tuttavia sostenere che la società nel suo complesso abbia dedicato relativamente poca attenzione a istituzioni scolastiche immaginarie. Quali esempi possiamo citare di scuole del 2105 o del 2234? Quali insegnanti di altre galassie abbiamo conosciuto nei libri o nei film? Cosa e come si studia in Star Wars o in Dune? Quanto possiamo imparare dai metodi di Obi-Wan Kenobi o del maestro Yoda?

Poca scuola nella fantascienza

Ci possono venire in mente i libri per ragazzi come Un alieno in 1a B, la popolare saga young adult di Bruce Coville in cui l’insegnante è un marziano. Oppure le storie di Zenna Henderson (lei stessa insegnante di scuola elementare), che coinvolgono spesso insegnanti contemporanei che affrontano sfide insolite; di lei possiamo prendere un testo paradigmatico come The Anything Box, in cui ci sono quattordici racconti che hanno quasi tutti come protagonisti dei bambini con un qualche tipo di rapporto con un genitore o un insegnante: ogni racconto è un piccolo trattatello pedagogico sul potere dell’immaginazione nell’educazione.

I testi popolari sono pochi, anche se le occorrenze ovviamente sono moltissime, alle volte le più astruse. Le stazioni spaziali fungono da scuole nella serie televisiva Space School (1956) e nella serie animata Galaxy High School (1986), con adolescenti umani che frequentano un liceo della stazione spaziale abitato e gestito da alieni. Una sottotrama ricorrente della serie Star Trek: Deep Space Nine (1993-1999) riguarda la scuola istituita da Keiko O’Brien per educare i giovani della stazione spaziale.

La via delle stelle (1955) di Robert A. Heinlein ha come protagonisti gli studenti di una classe di sopravvivenza che, come prova finale, vengono teletrasportati senza supervisione su un pianeta lontano; Rite of Passage di Alexei Panshin (1968) presenta una prova di maturità su un mondo colonia «civilizzato» che si rivela ostile; troviamo un corso per i quindicenni di una civiltà superiore in Aurelia di R.A. Lafferty (1982).

Nel racconto bellissimo e breve Chissà come si divertivano di Isaac Asimov (1951), i bambini sottoposti alla futura norma dell’istruzione domestica computerizzata apprendono, con stupore, di una passata età dell’oro in cui l’interazione con i compagni avveniva in aule con veri insegnanti umani.

«Non sai proprio niente, Margie. Gli insegnanti non vivevano in casa. Avevano un edificio speciale e tutti i ragazzi andavano là. – E imparavano tutti la stessa cosa? – Certo, se avevano la stessa età. – Ma la mia mamma dice che un insegnante dev’essere regolato perché si adatti alla mente di uno scolaro o di una scolara, e che ogni bambino deve essere istruito in modo diverso».

Un esempio molto precedente di questo tipo di apprendimento a distanza fa da cornice di John Jones’s Dollar di Harry Stephen Keeler (1915), in cui un professore si rivolge alla sua classe universitaria, sparsa in tutto il mondo, tramite un collegamento televisivo.

Questi esempi li abbiamo presi tra gli esempi di narrazione di fantascienza che descrivono dei sistemi scolastici. Molti sono racconti perduti, altri romanzi di culto. Quale può essere la ragione per cui la fantascienza parla così poco di scuola? Potrebbe essercene una più generale – nei romanzi di fantascienza si trovano pochi bambini; alcuni romanzi come I figli degli uomini di P.D. James basano la loro ispirazione proprio sull’ipotesi che l’umanità non riesca più a riprodursi, in altri come Neuromante di William Gibson non solo non ci sono bambini, ma non si possono nemmeno immaginare, e il mondo è un mondo sotterraneo, sporco e degradato.

Un’altra possibile spiegazione potrebbe essere quella data dalla natura dei romanzi di fantascienza, che sono spesso libri pieni di azione. (Ci sono molte attività criminali, le persone si muovono molto velocemente, sono impegnate a riciclare denaro attraverso diverse capitali del mondo, sono impegnate a rubarsi il software a vicenda e a collegare le cose dentro e fuori dal loro cervello. C’è molta attività e nessuno vuole interromperla perché il bambino ha la diarrea. La mia obiezione a questo è che la vita reale include i bambini e la vita reale è più complicata di quanto la fantascienza la renda in termini di strutture familiari e di ricerca di posti dove mettere... Quando è stata l’ultima volta che avete visto un’astronave con un asilo nido?)

Una terza possibile spiegazione è che la fantascienza abbia soltanto di recente rivalorizzato una tradizione di scrittrici donne e femministe, e che quindi dobbiamo rintracciare con più cura gli antecedenti che si sono trovati a ragionare di scuola ed educazione in termini non solo di formazione militare (in cui abbiamo esempi infiniti, anche da Star Wars o in Ender’s Game), mentre noi associamo l’educazione soprattutto dei bambini più piccoli a un’occupazione femminile.

Pochi esempi e prevedibili: spesso i sistemi educativi immaginati dalla fantascienza non hanno niente di particolarmente inventivo anche nei romanzi più sperimentali. Nella saga di Valerio Evangelisti Eymerich l’inquisitore viene descritta la Scuola sublime delle giovani speranze, dove vige un sistema di punizioni in cui «tre cartellini avrebbero significato le orecchie d’asino e l’esposizione in cortile; sei cartellini l’espulsione dalla scuola; nove cartellini un viaggio di sola andata a Lazzaretto. Lui era arrivato a un massimo di due cartellini».

In Infinite Jest di David Foster Wallace si immagina un’accademia di tennisti talentuosi che per l’intensità della competizione cercano di compensare lo stress facendosi di qualunque cosa. In Ender’s Game, tra i molti testi sulle accademie che insegnano a combattere nello spazio, la scuola per giovanissimi soldati che devono difendere il pianeta terra dall’attacco delle formiche somiglia anche questa a un’istituzione ipercompetitiva.

La pedagogia trasmissiva del futuro

La realtà della scuola delle storie di fantasy e di fantascienza somiglia molto alla scuola reale. In molta fantascienza vengono esasperati alcuni elementi scolastici, come quelli della pedagogia trasmissiva, in cui la conoscenza passa da un cervello all’altro come se fosse un impianto.

Nel 1957, quarant’anni prima di Gattaca, Isaac Asimov scrive il racconto La professione, che ha molti elementi comuni con la distopia del film di Andrew Niccol. La storia si svolge in una società umana futuribile che popola numerosi pianeti. La professione racconta di un futuro in cui l’istruzione avviene tramite due passaggi: il Giorno della Lettura e il Giorno dell’Istruzione.

L’apprendimento avviene in pochi minuti grazie all’uso di tecnologie avanzate; all’età di otto anni si impara a leggere nel Giorno della Lettura. Uno alla volta i bambini vengono portati in una stanza, che è un elaborato laboratorio informatico, che nell’immaginazione di Asimov assomiglia a una batteria di bobine, grande come una casa, attraverso la quale viene impartita la capacità di leggere.

Dieci anni dopo, compiuti i 18 anni, nel Giorno dell’Istruzione si viene istruiti per una professione specifica. Ma non si è liberi di scegliere il proprio futuro lavoro, perché viene assegnato automaticamente in base alle potenzialità delle proprie strutture cerebrali.

Una volta imparato il proprio mestiere nel Giorno dell’Istruzione, la massima aspirazione è quella di trovare lavoro in una delle colonie galattiche, che sono sempre in cerca di tecnici specializzati. Il protagonista, George Platen, fin da ragazzo ha in mente un solo mestiere: il programmatore di calcolatori.

Per prepararsi si impegna in un’attività non convenzionale: la lettura di libri sul tema. Quando arriva alla procedura di classificazione e lo comunica all’impiegato, viene mandato in quello che sembra essere un istituto psichiatrico con una grande biblioteca.

Dopo un po’ decide di fuggire e cerca di farsi riclassificare, ma dopo alcuni colpi di scena si rende conto che il posto in cui era stato mandato è un Istituto di Studi Superiori, una serra per allevare inventori, dove ci si aspettava che lui fosse pieno di risorse, che agisse e che prendesse iniziative.

Questo è un modo di sopravvivere per una società centralistica che aveva represso il pensiero originale; una società in cui i professionisti non sanno nulla se non ciò che è stato loro impartito; dove la capacità di autoapprendimento, l’originalità e l’inventiva sono presenti solo in pochi, come il protagonista della storia, e dove queste caratteristiche vengono alimentate con metodi che a noi possono sembrare crudeli.

Il realismo scolastico

Le questioni che emergono da questo genere di storia sono due. La prima è perché i sistemi scolastici alternativi immaginati dagli scrittori siano spesso così distopici, esasperazioni parossistiche dei peggiori difetti dei sistemi scolastici che conosciamo; perché è così difficile immaginare delle utopie scolastiche?

La seconda è complementare: l’impianto di questi modelli educativi ricalca in maniera alle volte persino triviale quelli noti e storicizzati: la classe, la lavagna, i voti, e anche le punizioni, le note.

Qual è la ragione? È forse una caratteristica intrinseca della scuola? Ornat Turin in How Is the Futuristic School Imagined in Science Fiction Movies and Literature scrive:

«La scuola, in quanto istituzione ultra-conservatrice, si pone in netto contrasto con le caratteristiche audaci e innovative della fantascienza. Molti elementi emersi durante la Rivoluzione industriale sono ancora presenti: la lavagna, le sedie, la campanella e la gerarchia insegnante-alunno».

L’impressione è che potrebbe essere invece il contrario: non riusciamo a immaginarci una scuola realmente diversa da quella che abbiamo vissuto e di cui parliamo come se fossimo incantati da una sorta di “realismo scolastico”. Realismo scolastico è un’espressione che potremmo coniare traslando il fortunato concetto di realismo capitalista da Mark Fisher.

Nel 2009 Fisher manda alle stampe un libretto  in cui prova ad argomentare come il tardo capitalismo somigli all’acqua in cui nuotiamo come pesci che trovano del tutto scontato evitare di interrogarsi sul senso di questa condizione, considerandola del tutto naturale. Rassegnazione dell’inconscio, il «there is no alternative» thatcheriano è stato introiettato così profondamente
da essere diventato un «fatto naturale»:

«Inutile dire che quello che viene considerato «realistico», quello cioè che sembra plausibile dal punto di vista sociale, è innanzitutto determinato da una serie di decisioni politiche. Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di aver raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata finché non viene percepita come principio anziché come fatto compiuto».

Mark Fisher è stato anche un insegnante, e l’analisi sociale che compie coinvolge ovviamente anche quella dei sistemi educativi. Come concetto filosofico, il realismo capitalista è influenzato dalla concezione althusseriana dell’ideologia: all’interno di un quadro capitalista non c’è spazio per concepire forme alternative di strutture sociali, figuriamoci forme alternative di scuola così come la conosciamo.

Anzi, diciamola meglio: le giovani generazioni non si preoccupano nemmeno di riconoscere le alternative, il che può essere causato dalla propagazione del realismo capitalista da parte di apparati ideologici statali come appunto la scuola.

Fisher nota non solo nei docenti ma anche negli studenti qualcosa che definisce impotenza riflessiva, un effetto della più ampia condizione ideologica del realismo capitalista: «Gli studenti britannici oggi sembrano essere politicamente disimpegnati [...] Ma questo, voglio sostenere, non è una questione di apatia, né di cinismo, ma di impotenza riflessiva. Sanno che le cose vanno male, ma soprattutto sanno di non poter fare nulla. Ma questa «conoscenza», questa riflessività, non è un’osservazione passiva di uno stato di cose già esistente. È una profezia che si autoavvera».

La categoria di impotenza riflessiva descrive un fenomeno in cui le persone riconoscono la natura difettosa di un sistema come il capitalismo o il sistema educativo, ma credono che non ci siano mezzi per effettuare un cambiamento; è un imperativo del realismo capitalista, la sensazione che non ci siano alternative.

Fisher aggiunge che questa condizione di impotenza riflessiva «equivale a una visione del mondo non dichiarata tra i giovani britannici, e ha la sua correlazione in patologie diffuse», che includono depressione, ansia e altri problemi di salute mentale.

Pensiamo al modello neoliberistico come a una degenerazione di un modello di scuola positivo ed emancipatorio; questo è spesso l’atteggiamento invalso da parte di chi oggi muove riflessioni critiche – allarmate, ragionate o apocalittiche – alle trasformazioni del sistema scolastico. Ma questo genere di critiche non coglie un punto più strutturale della natura dell’istituzione scolastica per come esiste nella modernità.


Questo articolo è un estratto dal libro di Christian Raimo, L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia (Ponte delle Grazie 2022, pp. 368, euro 18), in libreria dal 21 ottobre

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