L’accoglienza dopo il decreto sicurezza. Concentrazione di monopoli d’impresa, meno costi e più problemi. Più della metà dei bandi di gara banditi dalle prefetture italiane con i nuovi capitolati sono stati prorogati o annullati, ripetuti anche più volte. Sono alcuni degli effetti delle nuove norme approvate un anno fa dal primo Governo Conte sull’accoglienza dei migranti, regole che soltanto poche settimane fa sono state in parte modificate in alcuni aspetti.

 Li hanno forniti i ricercatori di Openpolis e della ong Action Aid all’interno di una mappa contenuta nelle oltre 400 pagine del Dossier Statistico Immigrazione  presentato il 28 ottobre a Roma e in contemporanea in diciannove città italiane.

Nella Capitale il passaggio nella gestione dalle piccole e medie realtà d’impresa alle grosse concentrazioni finanziarie è un fenomeno piuttosto evidente. Basti pensare che secondo i dati diffusi dai ricercatori, la quota di centri con una capienza superiore a 100 posti è aumentata in pochi mesi del 3,7 per cento. In parallelo, l’effetto delle nuove norme non ha avuto però solo un impatto sulla dimensioni dei centri, ma anche sugli enti gestori.

C’è chi come Medihospes, uno dei colossi nazionali del settore, prima del 2018 gestiva 16 centri di accoglienza straordinari, fornendo il 37 per cento dei posti messi a bando dalla prefettura di Roma, ed ora ne detiene ben il 63 per cento dei posti disponibili.

Questa è, infatti, «la combinazione migliore, se non l’unica disponibile, per realizzare economie di scala che consentono di ridurre l’impatto del taglio dei finanziamenti», si legge nel dossier: «Il fenomeno dei bandi deserti da un lato e il ritorno ai grandi centri dall’altro sembrano essere due facce della stessa medaglia. Risposte diverse a un meccanismo che spinge chiaramente verso la demolizione del sistema di accoglienza diffusa».

Si tratta di un fenomeno che in potenza potrebbe esplodere proprio a causa della pandemia, come dimostrano le cronache recenti delle tensioni e dei contagi tra i richiedenti asilo e gli operatori a Roma, ma non soltanto, anche in Toscana, dove nei centri di accoglienza di Fiesole, Prato, Sesto Fiorentino, si sono verificati ampi focolai. E tuttavia quella dei centri di accoglienza è una situazione potenzialmente esplosiva che rimane sottotraccia, per il momento, data la riduzione degli arrivi e di conseguenza del numero degli accolti.                                                      

La produzione di irregolarità

Come ha riferito proprio ieri un rapporto dell’Istat ripreso dall’agenzia Ansa: «Nei primi sei mesi del 2019 erano stati rilasciati oltre 100 mila nuovi permessi di soggiorno, mentre nello stesso periodo del 2020 ne sono stati registrati meno di 43 mila». Dunque i permessi di soggiorno rilasciati dalle questure italiane sono diminuiti quasi del 60 per cento, e ciò per effetto della diffusione dell’epidemia da Covid-19 che ha portato molti Paesi a chiudere le frontiere, ma anche a causa delle politiche adottate dagli stati.

È ancora il dossier statistico immigrazione  a riferirlo. Così: «il numero dei cittadini non comunitari scivolati nell’irregolarità erano stimati in 562mila alla fine del 2018, quando è entrato in vigore il primo decreto sicurezza, nei due anni successivi gli stranieri irregolari sono aumentati, arrivando a quasi 700mila quando siamo ormai alla fine del 2020».

È l’effetto congiunto delle politiche dei porti chiusi, dei respingimenti, dell’abolizione di misure come la protezione umanitaria, dell’assenza di una programmazione degli ingressi stabili di lavoratori stranieri dall’estero, che hanno da un lato svuotato i centri di accoglienza, dall’altro portato a un «drastico calo della percentuale di domande di riconoscimento della protezione internazionale presentate in Italia, dal 32,2% del 2018 ad appena il 19,7% del 2019, la metà della media europea».

Politiche e norme, dunque, quelle messe in campo dal primo governo Conte, che hanno prodotto irregolarità ed esclusione. Nel frattempo, però, è intervenuta la regolarizzazione della scorsa estate, che ha raccolto in totale circa 220.500 domande di emersione.

La regolarizzazione nell’anno della pandemia

I primi effetti umani e anche economici delle nuove norme previste nel decreto rilancio, nel quale è prevista la regolarizzazione, li ha calcolati il giurista Gianfranco Schiavone, presidente di Ics, il Consorzio italiano di solidarietà. Schiavone in uno dei saggi contenuti nel dossier redatto da Idos e Confronti scrive: «Il provvedimento è rimasto ancorato ad una ratio che ricalca i molti provvedimenti di regolarizzazione del passato senza intaccare né il circolo vizioso del riprodursi della irregolarità di soggiorno né incidere sulle modalità dello sfruttamento lavorativo».   

E stando alle cifre rese note nel rapporto sarebbe un flop sostanziale «dato che il provvedimento ha presumibilmente coinvolto non più del 30 per cento del bacino degli stranieri irregolarmente presenti in Italia; il 70 per cento di coloro che erano irregolari sono invece rimasti tali». Quali sono le ragioni, dunque, di questo parziale fallimento?

Continua il giurista: «anche la regolarizzazione del 2020 è stata impostata quasi interamente sulla sola volontà del datore di lavoro di fare emergere o meno il rapporto di lavoro irregolare senza prevedere alcuno spazio di azione del lavoratore, ridotto a mero soggetto passivo della volontà del datore di lavoro o, più propriamente, del padrone.

Poi conclude:  «È necessaria una riforma profonda del Testo unico sull’immigrazione: una riforma che apra canali di ingresso regolare per lavoro e ricerca di lavoro e dia stabilità ai permessi di soggiorno». In questo modo, si ritiene necessario e urgente aprire una nuova pagina della gestione delle migrazioni in Italia. In tutti i casi, chi sono e quanti i migranti che ogni anno arrivano in Italia?

Vecchie e nuove rotte

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, l’Oim, ha calcolato che tra il 1° gennaio e il 30 giugno di quest’anno sono arrivati via mare attraverso le rotte del Mediterraneo 23.700 migranti e rifugiati, in Italia, Grecia, Malta, Spagna, con una diminuzione sostanziale rispetto allo stesso periodo dello scorso anno quando si era registrato l’arrivo di quasi 30.000 persone.

In Italia sono giunti quasi 7mila migranti lungo la rotta del Mediterraneo centrale, nei primi sei mesi dell’anno considerati (altrettanti solo nel mese di Luglio) provenienti dalla Libia ma anche dalla Tunisia e dall’Algeria.

È la Libia, come è noto, il principale luogo di partenza, ma anche il Paese dove sono stati portati indietro, intercettati nei primi sei mesi del 2020 dalla guardia costiera libica più di 5000 migranti, secondo i calcoli fatti dai funzionari dell’Oim.  A tutto ciò si devono aggiungere le cifre dei morti e dei dispersi nel Mediterraneo centrale. Numeri fortemente sotto stimati, soprattutto, «per la difficoltà di registrare correttamente ogni possibile naufragio in un tratto di mare in cui la presenza di assetti navali europei e della società civile si è molto ridotta», hanno riferito ancora dall’Oim.

Il profilo di chi arriva sano e salvo, invece, cambia a seconda della rotta utilizzata. Sudan, Bangladesh, Somalia, Eritrea e Costa d’Avorio sono le prime nazionalità di chi arriva a Malta dalla Libia, mentre Bangladesh, Sudan, Marocco, Somalia e Mali sono le prime nazionalità per chi dalla Libia sbarca in Italia. Si tratta per la maggior parte di uomini adulti (74,0 per cento del totale), seguiti da una quota consistente di minori (17,0 per cento) e da una minoranza di donne adulte (9,0 per cento).

Ma non si arriva soltanto via mare, in Italia. Ci sono viaggi lunghi che durano anche due o quattro anni, in cui il nostro Paese è considerato soltanto una terra di transito verso il nord Europa. Come lo sono, di transito, i luoghi delle Alpi di confine come Briancon. Soste obbligate per la continuazione del viaggio. Spesso, per reperire risorse.

Come ha calcolato l’antropologo Piero Gorza, infatti, «i costi dei passeurs sono alti: 4.000 euro da Igoumenitza a Lecce, la stessa cifra dalla Serbia a Trieste, 1.400 da Velika Kladuša a Zagabria. Il costo per spostarsi dall’Afghanistan o dall’Algeria può comportare spese superiori ai 7.000 euro».

E ciò accade perché al di fuori dei numeri simbolici di coloro che arrivano attraverso i corridoi umanitari, non esistono altre vie legali per emigrare.

© Riproduzione riservata