Un ennesimo terremoto si è abbattuto sul Vaticano. Per capire la magnitudo della scossa bisognerà attenderne gli sviluppi, ma l’azione legale contro la segreteria di Stato di Libero Milone, ex revisore generale di papa Francesco licenziato cinque anni fa perché accusato di peculato e spionaggio, aprono un nuovo scandalo dentro la città santa.

È l’ennesima testimonianza delle difficoltà di Bergoglio, dopo quasi dieci anni di pontificato, di portare a termine alcune delle riforme sistemiche che aveva pubblicizzato all’inizio del suo mandato, in primis quella economica e finanziaria.

Con il superamento di modus operandi illeciti e la conseguente trasformazione del Vaticano in una «casa di vetro».

La denuncia di Milone rende manifesto ancora una volta che le best practice esaltate dalla stampa amica come cosa fatta siano ancora di là da venire.

E dimostra che Oltretevere impera l’improvvisazione e il caos, figlio di lotte intestine tra le varie cordate ecclesiastiche, le cui divisioni intossicano (come ha evidenziato anche il processo intentato contro l’ex braccio destro del papa Angelo Becciu) quasi tutte le istituzioni principali della Santa sede.

I soldi dei cardinali

La denuncia di Milone e del suo allora collaboratore Ferruccio Panicco, che con un esposto al tribunale vaticano chiedono 9,3 milioni di danni per «l’ingiusto licenziamento» e per il «complotto» attraverso cui sono stati professionalmente e mediaticamente annientati, si può dividere in due parti distinte.

Nella prima l’ex revisore elenca le presunte nefandezze che avrebbe scoperto, riferendole direttamente al papa e ai suoi magistrati nei due anni in cui ha lavorato per la Santa sede, dal 2015 al 2017. Illeciti che sarebbero stati sistematicamente coperti sotto il tappeto «da un vero e proprio nido di vipere».

Il paradosso è che Milone stesso era stato chiamato da Francesco per fare pulizia: l’ex revisore denuncia di essere stato isolato «in primo luogo dal Santo Padre, che gli aveva promesso la sua vicinanza e appoggio e che invece, prima ancora di ogni artificioso sospetto sul suo operato, gli ha costantemente rifiutato udienza affidandolo alle “cure” del suo entourage».

Milone nell’esposto fa intendere che proprio il suo attivismo contro illeciti e presunti crimini sarebbe stato motivo del suo allontanamento.

E fa un compendio di quello che avrebbe scoperto. Il consulente ha raccontato nell’incontro con alcuni giornalisti che ha anticipato la diffusione della domanda giudiziale come avrebbe trovato, nell’ufficio di un cardinale, «una busta di plastica della spesa con mazzette di banconote per 250mila euro», mentre lo stesso prefetto avrebbe restituito «sua sponte», si legge nell’esposto, «500mila euro di spettanza dell’ente, finiti sui suoi conti personali per “errore”».

La denuncia non fa il nome del cardinale, ma il Corriere della Sera e altri media dicono che si tratti di Gerhard Müller, ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

Fonti del Vaticano spiegano a Domani che non c’è mai stata alcun inchiesta su Müller, che l’errore sarebbe stato solo materiale, e che i soldi in contanti erano al tempo «del tutto legali perché ogni prefettura aveva disposizione fondi fuori bilancio per spese varie». Consuetudine poi vietata da norme varate in seguito dal papa.

Milone sostiene di aver individuato poi illeciti milionari nell’acquisto da parte del Bambino Gesù dell’ospedale romano dell’Idi (che rischiava il fallimento).

E spiega di aver girato «invano» al promotore di giustizia una lettera del presidente del Bambino Gesù Mariella Enoc, fedelissima di Parolin, in merito «all’anomalo impiego di cospicui fondi per il restauro della appartamento di un cardinale».

Milone anche stavolta non fa nomi, ma si tratta certamente dei soldi che una fondazione dell’ospedale investì per l’attico dell’ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che furono però svelati non dalla Enoc, ma da un’inchiesta pubblicata nel novembre 2015 dall’Espresso.

Il reportage portò all’apertura di un processo contro Giuseppe Profiti, ex presidente del nosocomio e amico di Bertone, che è stato condannato in secondo grado per abuso d’ufficio (la Cassazione vaticana non si è ancora espressa sul ricorso del manager).

Casa Vespa

Milone svela poi di aver segnalato nel 2017 «la sparizione di 2,5 milioni donati al Bambino Gesù dalla fondazione Bajola Parisani per la realizzazione di un nuovo reparto, realizzazione “sostituita” dall’apposizione di una targa di ringraziamento all’ingresso del vecchio reparto!».

Mentre avrebbe scoperto come nel 2013 sempre la Fondazione del Bambino Gesù – stavolta in epoca Enoc - avrebbe investito «500mila euro per il finanziamento illecito di partiti politici italiani».

L’accusa è smentita a Domani dall’entourage di Parolin, che dice inoltre che i soldi della Bajola Parisani «sono stati spesi per lavori edili in altri reparti e non certo distratti». Insomma, Milone avrebbe preso fischi per fiaschi.

Nel cahiers de doléances dell’esperto contabile ci sono pure gli investimenti per l’acquisto del palazzo di Sloane Avenue voluta da parte della segreteria di Stato guidata al tempo da Parolin e Angelo Becciu (lo scandalo è poi scoppiato nel 2019) e operazioni spericolate (alcune inedite, altre note come quella della tenuta romana “Laurentina”) dell’ex presidente dell’Apsa, il cardinale Domenico Calcagno.

Ma pure la storia della ristrutturazione della casa in cui viveva Domenico Giani, l’ex capo della gendarmeria che nel 2017 ha condotto le indagini che hanno portato alla cacciata di Milone.

Secondo quest’ultimo, la quota delle spese spettante al «comandante Giani», pari a 170mila euro, sarebbe stata coperta «illecitamente» dai conti correnti dello Ior del corpo di polizia.

Un’accusa grave che uomini vicino all’attuale presidente della fondazione Eni smentiscono, spiegando che «l’appartamento è un alloggio di servizio in uso all’allora e all’attuale comandante. La destinazione è ovviamente decisa dai superiori del Governatorato.

Trattandosi di un alloggio di servizio e di un immobile demaniale la ristrutturazione che fu fatta e le relative spese furono gestite direttamente dalla direzione competente dei servizi tecnici».

Insomma, nulla di irregolare. Come nulla di strano, dicono fonti della Propaganda Fide, ci sarebbe per un’altra storia raccontata ai giornalisti da Milone: quella di «un sontuoso appartamento nel centro di Roma» affittato dall’ente a «un notissimo giornalista Rai», i cui «rapporti contrattuali» con la Congregazione secondo l’ex revisore sarebbero «anomali».

In pratica, il noto giornalista pagherebbe troppo poco: appena «50mila euro l’anno», secondo Milone, mentre la differenza rispetto ai valori di mercato più alti sarebbe coperta da somme in beneficienza versate dal giornalista a Propaganda Fide: versamenti che Milone non avrebbe però trovato.

L’economista non ha fatto esplicitamente il nome del giornalista. L’unico giornalista Rai di cui è noto il rapporto con Propaganda Fide è però Bruno Vespa, che vive un un’attico vicino a piazza di Spagna di poco meno di duecento metri quadri con una delle più belle terrazze di Roma.

Sentito da Domani, Vespa dice: «Io pago poco meno di 11mila euro al mese, tutto documentato. Altro che 50mila euro all’anno, sarebbe bello. In più ho pagato io i lavori di ristrutturazione, oltre mezzo milione. E forse Milone non ha trovato i bonifici della mia beneficenza perché non li giro alla Congregazione, ma agli enti che lei mi indica di volta in volta: da quando sto nell’appartamento ho versato circa un milione di euro complessivi extra. Anche questi sono documentati al centesimo. Insomma, credo che pago di più di quanto vale la casa».

Giustizia à la carte

Al netto delle tante accuse tutte da dimostrare e che qualcuno pensa già possano essere «pelose», la guerra di Milone e Vaticano rappresenta bene il clima da wrestling che domina ancora in Vaticano.

Un tutti contro tutti che spacca anche le coalizioni, con il paradosso che due nemici giurati come Becciu e Milone, entrambi esautorati dai loro incarichi per volontà di papa Francesco, si trovano oggi d’accordo nell’accusare direttamente o indirettamente i vertici della chiesa e i promotori di giustizia che li avrebbero perseguitati.

Fino ad arrivare, denuncia Panicco anche malato di tumore, a rifiutarsi di restituire i documenti medici personali che conservava quando è stato perquisito. Diniego che avrebbe ritardato di almeno un anno la diagnosi, evento che gli avrebbe fatto perdere tra i 15 e i 20 anni di speranza di vita, secondo la denuncia depositata.

Secondo i detrattori di Milone, la maxi richiesta di risarcimento danni non solo non sarà accolta in Vaticano perché spedita oltre il tempo massimo dei cinque anni dal licenziamento.

Ma sarebbe solo una «risposta suicida» alla decisione di Parolin di interrompere la trattativa per una mediazione in bonis della vicenda. Mediazione che, come dice lo stesso ex revisore, durava da anni. Un’interruzione della negoziazione che – chissà se è un caso o meno – la scorsa primavera ha pure portato alla riapertura dell’inchiesta su Milone per un presunto peculato e abuso d’ufficio, indagine che era stata congelata nel 2017 per la decisione - da parte del papa o di Parolin, si presume, visto che gli avvocati di Becciu spiegano a Domani che Becciu non ne sa nulla - di porre sul fascicolo il segreto di stato.

«Non c’è alcun complotto: semplicemente il promotore Alessandro Diddi ha potuto studiare le carte solo adesso, quando Parolin ha tolto il segreto. Solo dopo aver letto i documenti dell’inchiesta il promotore ha potuto formulare l’accusa di peculato contro l’ex revisiore», spiegano da Oltretevere. «Crediamo che andrà presto a processo, le prove ci sono». Si vedrà.

Come dimostra anche l’andamento del processo sul palazzo di Londra e sui presunti reati commessi da Becciu è un’evidenza che la giustizia vaticana sembra muoversi con libertà ignote ad altri ordinamenti, con rescritti papali che possono cambiare le carte in tavola in qualsiasi momento, mentre segreti di stato messi o tolti all’improvviso possono congelare inchieste o colpire nemici a seconda delle convenienze vaticane.

La vicenda Milone insegna che la strada della riforma dell’economia è ancora lunga, ma quella della giustizia non è nemmeno iniziata.

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