Diallo è un ragazzo di 20 anni che è fuggito dalla Guinea Conakry, paese dell’Africa occidentale dove negli ultimi cinque anni la diffusione delle epidemie di ebola, prima, e di morbillo, poi, hanno inferto un duro colpo al già fragile sistema sanitario locale, caratterizzato, peraltro, dalla penuria di vaccini. «Sono stato costretto a lasciare il mio paese a 15 anni e dopo un viaggio di circa un mese, sono arrivato in Libia», racconta Diallo: «non avevo idea di quanto la situazione fosse pericolosa, ma l’ho capito sulla mia pelle quando sono stato detenuto e venduto ad una persona che mi ha costretto a lavorare per lui; in seguito, sono scappato per raggiungere l’Europa». E poi aggiunge, rievocando quegli istanti drammatici del viaggio: «sono arrivato su un gommone che trasportava 140 persone. Ad un certo punto, abbiamo iniziato ad imbarcare acqua e la struttura dell’imbarcazione ha ceduto. Molte persone che viaggiavano con me non sapevano nuotare e non ce l’hanno fatta. Così, io sono uno dei 40 superstiti che sono riusciti a salvarsi, perché, nel frattempo, la guardia costiera italiana ci ha soccorso e ci ha portato a Lampedusa. È da lì che è cominciata la mia seconda vita, in Italia».

Minori soli 

Diallo è uno dei 70000 minori stranieri non accompagnati che dal 2014 al 2018 hanno raggiunto le coste italiane attraversando il Mar Mediterraneo, come ha stimato l’Unicef. E, al giovane proveniente dalla Guinea Konacry, è andata sicuramente meglio che ai tanti altri minori che si sono persi tra le maglie del sistema d’accoglienza italiano che, troppo spesso, li fa scivolare sulla strada dello sfruttamento lavorativo. Già, perché Diallo è stato, inizialmente, ospite in un centro di seconda accoglienza e, dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, è stato accolto, temporaneamente, da una famiglia italiana. 

«Sono figlio unico e ho perso entrambi i miei genitori, sentivo il bisogno di ritrovare un’atmosfera famigliare attorno a me. Così, quando mi è stato proposto dall’operatore del centro dove mi vivevo, di essere ospitato da una famiglia, ho subito accettato», ha riferito ancora Diallo, che oggi svolge la professione di operaio e vive in provincia di Mantova, all’interno di un nucleo famigliare che è composto da Marco e Annalisa, e dai loro quattro figli: Elia, Giacomo, Linda e Francesco; quest’ultimo che ha 18 anni e frequenta l’ultimo anno di un istituto superiore, racconta a Domani: «nonostante entrambi abbiamo quasi la stessa età, la mia vita e quella di Diallo sono state profondamente diverse. Mentre io andavo a scuola, lui era detenuto in Libia. Ora, invece, facciamo più o meno le stesse cose: condividiamo la camera, prendiamo il bus insieme, giochiamo a calcio, guardiamo le partite in TV. Avergli dato la possibilità di avere finalmente una vita normale, è la cosa più bella di questa esperienza». I primi incontri tra loro sono avvenuti in un posto pubblico e, come ha confermato ancora Diallo: «sono stato colpito dalla loro allegria, trattandosi di una famiglia dove regna l’armonia e in cui ci si sostiene a vicenda. E per me la cosa importante era sapere che tutti i figli fossero stati d’accordo sul mio arrivo in casa». Le loro vite, però, non si sono incontrate per caso.

Refugees welcome 

Il loro incontro, infatti, è stato il frutto di un progetto portato avanti da qualche anno a questa parte da una onlus, Refugees Welcome Italia, che fa parte del network europeo Refugees Welcome International. L’associazione è nata l’11 dicembre del 2015 grazie all’impegno di un gruppo di professionisti con una solida esperienza nel campo delle politiche dell’accoglienza e dell’inclusione sociale. Dicono da Refugees Welcome: «siamo presenti in diverse regioni italiane, attivi in diverse città, dove lavoriamo con il supporto di gruppi territoriali multidisciplinari, aiutando le famiglie e i rifugiati ad incontrarsi, conoscersi e avviare la convivenza, sostenendoli e seguendoli durante tutto il percorso». E ancora, così spiegano la propria filosofia: «chi ospita in casa un rifugiato ha l’opportunità di conoscere una nuova cultura, aiutare una persona a costruire un progetto di vita nel nostro Paese, allo stesso tempo, di diventare un cittadino più consapevole e attivo, creare nuovi legami». Attualmente, sono già trecento le convivenze attivate, attraverso un metodo di accoglienza portato avanti in trenta città italiane che ha coinvolto, finora, duecento attivisti, in diciassette regioni italiane. Chiunque ha una camera libera ed è interessato ad ospitare, può iscriversi sul sito dell'associazione www.refugees-welcome.it. Basta un click, per accogliere.  

Le famiglie accolgono, nonostante la pandemia 

C’è chi come Diabo, che ha 22 anni e viene dal Burkina Faso e ha riferito gli ultimi mesi vissuti con Raniero, Alessandra e la figlia Serena, la famiglia che lo accolto in provincia di Torino. Così: «c’eravamo conosciuti poco prima della pandemia e, quando è stato possibile, ci siamo incontrati durante i week-end per passare del tempo insieme. A settembre dello scorso anno, dopo aver terminato il periodo di accoglienza nel centro dove vivevo, mi sono trasferito a casa Tomei, dove la convivenza procede a gonfie vele». E poi ha aggiunto: «grazie alla rete di conoscenze della famiglia Tomei, ora, ho trovato anche un lavoro come apprendista elettricista». Secondo quanto ha dichiarato la famiglia, invece: «questa è una esperienza che consigliamo a tutti, uno scambio reciproco di modi di vivere, di culture, di esperienze che troviamo molto stimolante, che aiuta ad eliminare i pregiudizi». 

Anche i single ospitano in casa 

Ma non ci sono solo le famiglie così dette tradizionali ad accogliere i rifugiati nelle proprie abitazioni. C’è Enzo che ha 82 anni, è un ex geometra ora in pensione e nella sua casa di Roma ospita Ebou, un giovane rifugiato di 22 anni, che ha alle spalle un lungo viaggio migratorio che lo ha portato dal Gambia all’Italia attraversando il Senegal, il Mali, la Libia. «Non ricordo dove sono sbarcato, perché in quei momenti ho pensato solo che mi ero salvato», ha raccontato Ebou, anche lui giunto in Italia da minore straniero non accompagnato. Enzo, da parte sua, riferisce: «ospitare un rifugiato è per me un modo di tradurre in gesti concreti le cose in cui credo. Così desideravo offrire ad Ebou la possibilità di trovare la sua strada e costruirsi un futuro. Ed è anche un modo di restituire ciò che ho ricevuto nella vita. Dopo il diploma sono venuto a Roma dalla Puglia per trovare un lavoro e sono stato accolto da alcuni parenti finché non l’ho trovato, un impiego. E poi, anche mio padre è stato un immigrato, andò in America con un bastimento carico di italiani in cerca di fortuna». 

Non solo rifugiati africani 

«L’arrivo di Tsering è stata all’inizio una sorpresa», raccontano Fabio e Samuele: «perchè gli operatori di Refugees Welcome ci avevano anticipato che probabilmente avremmo ospitato un ragazzo più giovane di noi, proveniente dall’Africa Sub-Sahariana o dal Medio Oriente». E invece, proseguono i due uomini che hanno aperto le porte della propria abitazione a Tsering, giovane donna fuggita dal Tibet e arrivata a Milano quattro anni fa in seguito ad un viaggio difficile e pericoloso lungo l’Himalaya: «alla fine, ci hanno presentato una giovane donna della nostra stessa età che viene dall’Asia», ricordano sorridendo i due ragazzi: «volevamo rendere una testimonianza, stare, concretamente, dalla parte dei rifugiati. In un paese in cui le persone straniere, sempre più spesso, sono circondate da un clima di ostilità, ospitare qualcuno di loro a casa nostra, per noi, è stato un modo per mostrare che esiste un’altra Italia». Quella dei cittadini che accolgono nelle proprie case, mentre una grossa parte del mondo politico italiano vorrebbe «aiutarli a casa loro», gli stessi posti da cui fuggono, da guerre, povertà e persecuzioni. 

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