Attilio Fontana, presidente della regione Lombardia, la più colpita dal Covid-19 nella prima ondata pandemica, ha sempre negato di essere a conoscenza delle proiezioni drammatiche presentate al governo il 12 febbraio 2020 da Stefano Merler, matematico di fama internazionale della fondazione di Trento Bruno Kessler. Oggi sappiamo che non è così. Fontana venne informato. Il presidente e i vertici regionali sin dal 28 febbraio 2020 erano anche al corrente della catastrofica situazione epidemiologica, non più solo proiezioni, in Lombardia e soprattutto nella provincia di Bergamo dove, in meno di due mesi, sono morte per il virus oltre seimila persone. 

Nonostante tutto questo, Fontana ha inviato un’email, finora inedita e letta da Domani, alle 16.59 del 28 febbraio 2020. Il messaggio partito dalla sua casella postale certifica due fatti: la Lombardia non chiese mai formalmente una zona rossa per la provincia di Bergamo e al contrario chiese ufficialmente al governo di restare in zona gialla, ovvero di mantenere le misure blande dei giorni precedenti. Sebbene fosse a conoscenza che l’indice di trasmissione del virus aveva superato la soglia critica. I destinatari della missiva di Fontana sono: Angelo Borrelli, a capo della Protezione Civile, la segreteria della presidenza del consiglio, quella del ministero dello sviluppo economico e la segreteria del ministero dell’Interno. L’oggetto: «Urgente - proposte misure contenimento della diffusione del Coronavirus ordinanza integrazione medie e grandi strutture vendita». 

La mail di Fontana 

L’email è stata acquisita dalla procura di Bergamo che da oltre due anni e mezzo indaga sulla strage Covid nella bergamasca. Uno dei passaggi cruciali: «Regione Lombardia, con la nota trasmessa ieri, ha richiesto il sostanziale mantenimento, per la settimana dal 2 all’8 marzo delle misure di contenimento della diffusione del Coronavirus valide per questa settimana, già adottate con il decreto del 23 febbraio 2020 per i comuni del basso lodigiano e con l’ordinanza per il resto del territorio regionale». Questo documento viene menzionato anche nella consulenza tecnica depositata in procura a Bergamo il 14 gennaio di quest’anno e commissionata dagli inquirenti a tre esperti: Andrea Crisanti, Daniele Donato ed Ernesto D’Aloja. 

In copia tra i destinatari della mail troviamo anche Giulia Martinelli, capo segreteria del presidente della regione, ritenuta la donna più potente del palazzo, il Pirellone dove ha sede l’amministrazione regionale. Martinelli è l’ex compagna di Matteo Salvini, leader del partito di Fontana. I due hanno avuto una figlia e sono ancora molto legati. Il 27 febbraio 2020 il numero uno della Lega era stato molto netto sulla linea da tenere in merito alle chiusure per limitare i contagi: «L’Italia ha bisogno di accelerare, riaprire, ripartire».

Una linea politica, appunto, annunciata sui social, e che nella giunta lombarda hanno preso alla lettera come dimostra la mail del giorno successivo, 28 febbraio, inviata da Fontana con cui chiedeva di rimanere in zona gialla. Intanto però il virus correva, mieteva vittime. E questo Fontana lo aveva appreso da più fonti, come documentato dagli atti pubblicati da Domani. Era a conoscenza, ma ha preferito seguire la linea del partito indicata da Salvini, che nella giunta ha i suoi fedelissimi e l’ex compagna molto influente sulla presidenza. 

Il presidente sapeva 

Nella email del 28 febbraio Fontana motiva la richiesta di reiterare la zona gialla allegando delle slide nelle quali si mette in evidenza come l’incidenza dei contagi sia elevata in pochi territori e come le misure adottate il 25 febbraio alla luce dei dati siano “valide”. Ma è proprio la presentazione allegata alla richiesta di regione Lombardia a suscitare perplessità anche agli occhi della procura di Bergamo e dei consulenti tecnici, poiché dimostra la consapevolezza del presidente leghista della situazione epidemiologica ormai fuori controllo: in quella presentazione, infatti, si faceva esplicito riferimento all’indice di contagio (R0) pari a 2, allerta rossa dunque. 

Le slide allegate alla mail, dal titolo “Piano di Regione Lombardia per il contenimento della diffusione di Coronavirus” (altro documento inedito letto da Domani), esordiscono nel capitolo “Cosa abbiamo capito” con due affermazioni, la prima: «Il virus clinicamente non dà problemi o comunque è facilmente risolvibile; la seconda: «Dalle prime evidenze ogni paziente con Coronavirus trasmette il virus ad altre due persone R0=2». In quei giorni di fine febbraio, dunque, regione Lombardia era consapevole che l’indice di trasmissione aveva raggiunto e superato la soglia critica di due, ma chiese comunque di mantenere le stesse misure blande dei giorni precedenti. Infatti, nella successiva slide si legge: «Le misure che sono state adottate domenica con il Dpm del 25 febbraio, alla luce dei dati di oggi SONO VALIDE (maiuscolo nel documento, ndr) perché permettono di contenere la diffusione del virus ed evitare che l’incidenza dei territori più colpiti raggiunga tutta la Regione». 

Fontana ha risposto all’articolo di Domani: «Non si ricorda che il virus era sotto controllo clinicamente. C'era scritto ma non è stato letto», la replica. Tuttavia i fatti dimostreranno che non era affatto sotto controllo. A rispondere al presidente è l’avvocata Consuelo Locati, portavoce dell’associazione dei familiari delle vittime Covid di Bergamo e Brescia: «Gli ospedali erano già al collasso anche prima del 23 febbraio 2020 e comunque non è assolutamente vero che il sistema sanitario non era sovrastato».

È bene ricordare che il 28 febbraio 2020 è anche il giorno in cui i vertici regionali avevano ricevuto un’email con l’aggiornamento della situazione epidemiologica in Lombardia e nella bergamasca: si trattava dei grafici del matematico Stefano Merler, nei quali veniva comunicato che l’R0, cioè l’indice di trasmissione, in Lombardia era superiore a 2 e in provincia di Bergamo aveva un potenziale fino a 3.17 (soglia ampiamente superata nel mese di marzo, quando l’Rt a Bergamo, dopo le chiusure tardive, toccherà quota 4.5). 

I dati forniti a regione Lombardia sono ancora “molto sottostimati”, sottolineava il matematico Merler, dal momento che non tenevano conto degli asintomatici. Secondo i consulenti della procura il presidente Fontana era dunque informato del fatto che l’indice di trasmissione in regione avesse raggiunto il valore critico di due. E sono convinti che i vertici di regione Lombardia fossero anche consapevoli delle gravi conseguenze che un indice di trasmissione superiore a 2 avrebbe avuto per il sistema sanitario regionale e per la salute dei cittadini. 

Gli scenari di Merler 

Ad alimentare ulteriori sospetti sulla regione guidata dal leghista Fontana per la gestione caotica e disorganizzata di quei mesi c’è anche un giallo che la consulenza della procura di Bergamo potrebbe finalmente risolvere. Materia di discussione è il documento denominato scenari di Merler. Un autorevole studio sulla diffusione del coronavirus in Italia, che prevedeva fino a 70 mila vittime, presentato a Roma davanti al Cts e al ministro Speranza il 12 febbraio 2020 e diventato una bussola per le autorità sanitarie per orientarsi in quelle settimane caotiche di una guerra contro un nemico sconosciuto.

Il modello presentato da Merler indicava che per mitigare l’impatto bisognava arginare la diffusione del virus applicando tempestivamente rigide misure di distanziamento sociale, tipo “zona rossa”. Alberto Zoli, direttore generale dell’Azienda Regionale Emergenza Urgenza (Areu) in Lombardia e membro del Cts ha partecipato a quella presentazione e avrebbe confermato agli inquirenti di aver condiviso questi scenari con l’Unità di crisi di regione Lombardia.

A fine febbraio, sebbene vincolato dal segreto, allarmato dalla situazione che si stava delineando Zoli avrebbe comunicato verbalmente a Fontana, all’assessore al welfare Giulio Gallera e al direttore generale welfare Luigi Cajazzo il contenuto del Piano Covid (basato sugli scenari di Merler) e le azioni da intraprendere sulla base del valore di Rt. Zoli avrebbe anche informato Fontana che le previsioni contenute negli scenari del piano erano talmente catastrofiche da aver indotto il Cts e il Ministro Speranza a secretare il piano per non allarmare l’opinione pubblica. 

Zoli in realtà ha sempre affermato pubblicamente di non aver mai parlato con la giunta Fontana di questi numeri, per un patto di riservatezza sottoscritto con i membri del Comitato tecnico scientifico. Fontana dal canto suo ha sempre confermato questa tesi, ribadendo di non aver mai avuto accesso a quelle informazioni.

Nella relazione finale di maggioranza della Commissione regionale d’inchiesta sull’emergenza sanitaria si legge: «Zoli nulla aveva rivelato a regione Lombardia, avendo assunto precisi obblighi di riservatezza». E ancora: «Ciò che è gravissimo è che il Cts abbia elaborato un piano di risposta al covid senza informare le regioni e abbia occultato alle regioni stesse le proiezioni drammatiche del prof. Merler del 12 febbraio». Gli atti dell’inchiesta di Bergamo però dicono altro: Zoli aveva informato già a febbraio 2020 i vertici di regione Lombardia dello tsunami imminente. 

Una catastrofe 

Non aver chiuso tempestivamente la Val Seriana, culla industriale della Lombardia, ha provocato migliaia di morti in più, soprattutto tra i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, epicentro della prima ondata Covid. Secondo la consulenza tecnica depositata in procura dal professor Crisanti si sarebbero potuti evitare migliaia di decessi con l’adozione di misure drastiche e tempestive in due diverse date: l’istituzione della zona rossa il 27 febbraio o il 3 marzo avrebbe permesso di evitare, con una probabilità del 95 per cento, rispettivamente 4148 e 2659 decessi. In Val Seriana, invece, non venne mai istituita una zona rossa. 

La stima delle vite umane che si sarebbero potute salvare con un intervento tempestivo, suscita oggi nuova rabbia tra i famigliari delle vittime del comitato “Sereni e sempre Uniti”. Oltre 600 i parenti che hanno citato in giudizio presso il Tribunale Civile di Roma Regione Lombardia, la presidenza del Consiglio e il Ministero della Salute, chiedendo un risarcimento da oltre 220 milioni di euro.

Secondo i consulenti della procura di Bergamo le responsabilità sarebbero da ricercare anche a Roma, come già raccontato da Domani un anno e mezzo fa con una notizia che oggi trova una conferma importante: secondo i periti la ragione per la quale azioni più tempestive e più restrittive non sono state prese la fornisce il Presidente Conte quando, nella riunione del 2 marzo 2020, afferma che «la zona rossa va utilizzata con parsimonia perché ha un costo sociale politico ed economico molto elevato». 

La chat su Conte 

Queste considerazioni di natura politica hanno prevalso sulla esigenza di proteggere gli operatori del sistema sanitario nazionale e i cittadini dalla diffusione del contagio. In quella riunione del Cts (il comitato tecnico scientifico) del 2 marzo che, lo ricordiamo, sarebbe dovuta rimanere riservata, alla presenza del ministro Speranza e del premier Conte, il professore Silvio Brusaferro (presidente ISS) illustrava la situazione nei comuni di Alzano, Nembro e Cremona, «dove si registrava una elevata trasmissione virale e sottolineava l’urgenza di adottare misure analoghe alla zona rossa».

Conte però ribatteva che la «zona rossa ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato; decide di rifletterci». Il contenuto di quell’incontro - già riferito da Domani a marzo 2021 - ufficialmente non doveva essere trascritto, ma uno dei componenti (Agostino Miozzo) ha redatto un verbale dal quale emerge che tutti sapevano giorni prima rispetto al 3 e al 5 marzo 2020, date in cui Speranza e Conte hanno affermato di essere venuti a conoscenza della necessità di chiudere i comuni di Alzano e Nembro. 

I messaggi telefonici allegati alla consulenza tecnica, peraltro, confermerebbero le esitazioni di Conte nell’adottare la zona rossa ad altri comuni dopo quella applicata alla provincia di Lodi, dove si è verificato il primo caso covid il 20 febbraio 2020. Speranza scrive a Bruseferro: «Conte senza una relazione strutturata non chiude i due comuni. Pensa che se non c’è una differenza con altri comuni ha un costo enorme senza beneficio». La risposta del presidente dell’Iss: «Sì. Parere lo ha spaventato perché dichiara possibilità di altri interventi. Lui dice che ci sono ormai molti comuni in questa situazione. Quindi ha dubbi che serva...mi ha chiesto una relazione compiuta».

È così che Brusaferro chiese supporto a Merler per una nuova analisi dei dati che giustificasse la misura più estrema della chiusura totale, approfondimento che ha convinto il Ministro Speranza a firmare il decreto fantasma del 5 marzo 2020 con l’estensione della zona rossa ad Alzano e a Nembro. Decreto che invece non verrà mai controfirmato dal premier Conte. 

Nelle carte della procura, che si appresta a chiudere le indagini di un procedimento penale delicatissimo che vede al momento cinque dirigenti sanitari di regione Lombardia indagati con l’ipotesi di reato di epidemia colposa e falso, c’è il racconto della genesi del disastro annunciato: email, chat, conversazioni, testimonianze che documentano l’inerzia del governo giallo rosso e della regione Lombardia, con il suo presidente Attilio Fontana che pur sapendo dei dati ben oltre la soglia critica chiese di mantenere misure leggere di contenimento. 

La consulenza tecnica svela omissioni e superficialità di chi avrebbe dovuto garantire la sicurezza dei cittadini lombardi nella regione all’epoca colpita più di tutte dal Covid-19. Emerge così l’indecisione delle autorità regionali e del governo sui provvedimenti da adottare. Sono 17 i giorni di inerzia su cui gli inquirenti di Bergamo, guidati dal procuratore capo Antonio Chiappani, stanno cercando di fare luce e durante i quali non vennero adottate azioni più restrittive, peraltro previste dal Piano Covid (secretato) e normate dal decreto legge del 23 febbraio 2020. 

Verità negate, verità nascoste, impreparazione, bugie e omissioni. L’inchiesta sulla gestione della prima fase Covid in Lombardia, comunque vada a finire, farà emergere l’inadeguatezza e l'impreparazione di chi ha dovuto affrontare la prima fase pandemica. 

Il 28 febbraio 2020 è quanto mai centrale. A partire da quel giorno, le valutazioni e le decisioni prese da regione Lombardia e dal governo, secondo i consulenti della procura, avrebbero avuto conseguenze devastanti nel controllo dell’epidemia in Italia, che si è trovata da quel momento in balia dell’improvvisazione.

La Lombardia è stata chiusa in una zona arancione l’8 marzo 2020. Questo significa che la regione più popolosa e industrializzata d’Italia, la più colpita dal covid, ha continuato a produrre e a far circolare centinaia di migliaia di cittadini, poiché le fabbriche sono rimaste aperte fino al 23 marzo 2020, giorno in cui è entrato in vigore il Dpcm “Chiudi Italia”, che ha bloccato a livello nazionale (quasi) tutte le attività non essenziali. Per la Lombardia e soprattutto per la Val Seriana (dove operano oltre 2446 aziende e oltre seimila attività di servizi) era ormai troppo tardi. Gli slogan di Confindustria “Bergamo non si ferma”, “Milano non si ferma” e i desiderata del capo degli industriali lombardi, Marco Bonometti, che ha sempre affermato: “in Lombardia non si potevano fare zone rosse, non si poteva fermare la produzione” hanno fatto breccia nel cuore della politica.

      

© Riproduzione riservata